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FINNEGAN SHANAHAN |
The two halves |
New Amsterdam Records |
2016 |
USA |
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A volte succede che per puro caso si riesca a scovare gioiellini semisconosciuti come questo album d’esordio di Finnegan Shanahan, giovane (del 1993) polistrumentista di Brooklyn (ma nato ad Albuquerque) che ci propone questo breve lavoro, suddiviso in sei canzoni, basato su un immaginario viaggio originato dall’esplorazione di una mappa della ferrovia dello Hudson del 1852 (il sottotitolo dell’album è infatti “Music for a Hudson River Railroad dream map”). Finnegan, che vanta una formazione classica di violino e viola, si addentra in percorsi musicali che spaziano tra la musica contemporanea, il folk ed il chamber rock, suonando in prima persona gli archi, l’organo, il piano e la chitarra, oltre a cantare. Accanto a lui c’è una vera orchestra (per la maggior parte facente parte dell’ensemble Contemporaneous, di cui Finnegan fa parte), con batteria, basso e chitarre ma anche e soprattutto una moltitudine di fiati ed archi. Le sei canzoni hanno un’andatura delicata e prevalentemente onirica, descrivendo il percorso attraverso i vari luoghi della mappa, illustrati anche in modo artistico nel booklet, contenente 18 immagini, opera di Render Stetson, rappresentanti le mappe oniriche descritte all’interno dei brani, ognuno dei quali peraltro è musicalmente, ma non fisicamente, suddiviso in più movimenti. Musica da camera delicata, un cantato sognante e talvolta sussurrato, con incedere che ricorda quello di un battello cullato dalle onde e dallo sciabordio delle acque di un fiume; la prima canzone, “The Platelayers”, si dipana mollemente così. Ritmiche più movimentate caratterizzano invece la successiva “The Great Sunstroke”, con connotati lievemente più folk, con la voce di Finnegan che viene supportata ora da morbide linee di piano, ora invece da orchestrazioni più complesse e sostenute in cui sono presenti solo archi e batteria, con soluzioni sonore particolari. Lo strumentale “The Exile” si snoda mollemente, in modo quasi svogliato, con archi tenui, anche arpeggiati, che fluiscono in maniera seducente e quasi sussurrato. “The Giant Sleeps” ha ambientazione più bucolica e suoni più pieni, almeno all’avvio, salvo immergersi poi nella dolce mollezza gelatinosa che una chitarra stancamente arpeggiata ed un cantato celestiale riesce a donargli. Nella sua seconda metà questa canzone sale poi leggermente di tono, ricordandomi qualcosa degli Yes più eterei (o del Jon Anderson solista). La prima parte della title track è ritmata, di certo la parte più movimentata dell’intero album, sbilanciata sul folk e atmosfere ancora alla Yes, salvo interrompersi sul più bello; la seconda metà è quasi rumoristica (ma non disturbante). “The Azimuth” conclude le danze in maniera molto accattivante: un cantato melodico, sostenuto da flauto ed un’orchestrazione più presente, con note ammiccanti e decisamente attraenti. Il brano, che sfiora gli 8 minuti, procede in lento crescendo, fino al finale che, virando nuovamente su note tranquille ed eteree, ci conduce languidamente alla conclusione dell’album. Si tratta di un dischetto che mi ha piacevolmente sorpreso, l’ho già detto; appena 35 minuti di musica ed orchestrazioni voluttuose e deliziose che sono riusciti in breve a guadagnarsi il mio personale apprezzamento. Assolutamente da provare.
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Alberto Nucci
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