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VISIONOIR |
The waving flame of oblivion |
autoprod. |
2017 |
ITA |
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La sigla Visionoir sancisce un’avventura nata nel 1998 con il demo “Though the inner gate”, cassetta ben accolta dalla stampa metal, che commentò l’originalità di una proposta di fine millennio in cui si metteva in risalto un originale connubio di gothic-metal e musica “cosmica”. All’epoca, il friulano Alessandro Sicur era accompagnato dal chitarrista Mattia Pascolini, prima di confluire come bassista nei Blind Mirror. Inizialmente pianista, Sicur si sarebbe in seguito interessato proprio al basso, prima di avvicinarsi anche ad altri strumenti come la stessa chitarra. Tra il 2001 ed il 2015 – anche grazie alla forte rinascita dell’interesse collettivo per la musica prog – il polistrumentista avrebbe continuato a comporre, anche se in maniera discontinua, per poi rielaborare e riassemblare. Il risultato finale è questo “The waving…”, con il rispolverato pseudonimo Visionoir, a cui si aggiunge Visionart, quello cioè con cui Sicur firma le proprie opere grafiche, come quelle qui presenti. Si tratta di prog? In un certo senso sì, perché il nostro espande i limiti standardizzati di determinati generi per giungere a soluzioni differenti, anche se di certo non si può parlare di prog-rock. Magari di prog-metal, visto che le sonorità ed i riff suonano inequivocabili, attualizzando le vecchie idee degli anni passati e non rigettando mai la vena space. Ma in questa proposta è comunque rintracciabile la vecchia “filosofia progressiva”, perché la sperimentazione che va oltre gli schemi precostituiti è presente soprattutto con l’uso di voci pre-registrate in quella che sarebbe una proposta interamente strumentale. Se poi tali voci sono quelle di autori, poeti e drammaturghi, allora il peso specifico cambia decisamente. Non è un caso che l’autore guardi con dichiarato favore agli italo-sloveni Devil Doll – pure loro musicisti geograficamente di confine, autori di musica che viaggia sul filo del limite, in tutti i sensi –, la cui complessa architettura è caratterizzata da una voce folle, quella del mastermind Mr. Doctor. L’iniziale “Distant Karma” rispecchia (anche troppo) la dimensione di one-man band, con una produzione volutamente sintetica che poi cresce di densità; si sentono gli intarsi di un altro punto di riferimento musicale, i King Crimson, in particolar modo quelli “disciplinati” degli anni ’80, le cui sonorità sembrano ormai ricorrere in molte realtà musicali attuali. È comunque un pezzo metal, nessuna discussione, che lascia poi il passo a “The hollow men”, in cui si sente la voce di T.S. Eliot che recita il testo della poesia omonima, composta nel 1925 durante un periodo di forte crisi (soprattutto economica). Pezzo con forti distorsioni, anche tastieristiche, che poi torneranno immediatamente in “7even”, dalle sonorità mediorientali. A dimostrazione che i brani seguono un loro filo conduttore, nonostante siano stati composti in periodi differenti, il suono di un sitar apre “The discouraging doctrine of chances”, apripista di altri riff pesanti che coprono la voce in sottofondo di Ezra Pound. L’atmosfera infuocata, in cui è sempre presente la componente esotica, potrebbe ricordare con le debite proporzioni i Cacophony, anche se non vi sono certo gli assoli ultra-tecnici ad opera di due mostri sacri del genere come Marty Friedman e lo sfortunatissimo Jason Becker. “Shadowplay” è più psichedelica, mentre “Electro-Choc”, scandita dalla voce di Antonin Artaud, è stato il primo esperimento compiuto in questo senso da Sicur, con assoli di chitarra più “lirici” e campionamenti in stile quasi Ozric Tentacles. Il pianoforte ed il vento che aprono “Coldwaves” annunciano un pezzo fin dal titolo che guarda al versante dark-wave (invero un po’ più solare, in questo caso), proseguendo con “A few more steps” commentata dalla voce di Dylan Thomas che declama i versi di “The lament”; un pezzo a suo modo più intimo, posto verso la fine dell’album, che si conclude con la bonus “Godspeed Radio Galaxy”, sicuramente più energica della precedente ma che comunque preserva un certo modo di sentire, diventando col suo pianoforte una possibile componente di qualche lavoro più tecnologico degli Ayreon. Ed è proprio Arjen Lucassen l’artista che attualmente sembra più vicino a Sicur, nonostante questi debba ancora lavorare per raggiungere il medesimo livello internazionale. Di sicuro ha optato per scelte diverse, perché il musicista olandese si avvale di un metodo che in apparenza sembrerebbe diametralmente opposto, circondandosi cioè di tanti collaboratori anche prestigiosi, soprattutto alla voce. In apparenza, per l’appunto, perché i due sembrano molto più simili di quanto si possa pensare.
C’è da lavorare, si diceva. Occorre conferire più profondità e spessore ai suoni, andando incontro a quelle sonorità oscure in stile Goblin che si erano nitidamente ascoltate nel finale. E poi una batteria autentica non guasterebbe di certo, “umanizzando” un po’ di più il sound. Certo, il distacco freddo ed artificioso deve essere stato ben voluto dall’autore, c’è da scommetterci… Ovviamente, questo non è un album per incalliti ascoltatori di rock progressivo, bensì per chi è attratto dalle soluzioni che portano alle deviazioni dalle strade principali del metal, con varie contaminazioni che passano anche da elementi sfruttati decenni fa in musiche di altro tipo. Risultato finale discreto, che Alessandro Sicur può comunque migliorare in maniera sensibile.
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Michele Merenda
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