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HOLLOW EARTH |
Out of Atlantis |
Sound Effect Records |
2017 |
SVE |
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Tra i vari miti sul nostro pianeta, fantasiosi e spesso campati in aria, c’è una teoria che narra di una terra cava, al cui interno vivrebbero gli eredi di Atlantide e bla, bla, bla … Ovviamente tutte queste teorie sono state confutate dalla scienza, ma, al pari dei terrapiattisti, di tanto in tanto qualcosa salta fuori. Per fortuna qui non si fa geofisica, ma musica e, sempre per fortuna, si fa piuttosto bene. La band svedese che ha scelto di affidarsi a questo nome fa capo a Stoccolma ed è composta da tre giovani musicisti, Cristobal Nemo alle tastiere (tutte rigorosamente vintage), chitarre e vibrafono, Don Pharaoh al basso e voce e Rod Handel per batteria e percussioni. Gli intenti della band sono piuttosto chiari, i riferimenti così meravigliosamente lampanti da sembrare quasi infantili, ma genuini e sinceri fino all’ultima nota. Se le influenze maggiori sono rintracciabili nei primissimi Pink Floyd, non mancano evidenti temi Deep Purple, non mancano riferimenti a certo hard prog nella scia di Iron Butterfly e Atomic Rooster. Ma non finisce qui, perché negli assolo di tastiere, molto belli, spunta quel suono tanto caro a David Sinclair dei Caravan e quei temi alla “Nine feet underground” che tanto, tanto amiamo. Da questo sublime calderone di prog primordiale, salta fuori un disco piacevolissimo in cui i suoni vintage delle tastiere, organo Hammond B3, Mellotron, spinetta, synth vari, si mescolano a voci filtrate, davvero vicine (talvolta fin troppo) ai Pink Floyd dei primi 3-4 album, ma si spostano su ritmiche decisamente più complesse rispetto ai dischi dell’epoca. C’è chi vuole identificare questa musica con il termine retro-prog, non sono d’accordo, ma tanto per capire di che si parla, infiliamo pure questo. Sei i brani, tra i quali spicca, grazie al suo sviluppo, la suite “Behind the Ivory gate”. Nei quasi 17 minuti di variazioni e rincorse, si fa ascoltare con enorme piacere, con quel caldo sapore di “casa”, specie la sezione centrale, molto dinamica, con tastiere in grande evidenza, con ritmiche ben calibrate e complesse, ma senza sbrodolare. Altro brano da tenere in evidenza è la title track. “Out of Atlantis” è un brano piuttosto breve, ma in meno di 5 minuti raccoglie un condensato di progressive e un impatto strumentale di grande fattura. Da citare anche “Incantation” e il suo tentativo di novellare la storica “Astronomy Domine” dei Pink Floyd, rubacchiando un po’ stile e melodia, ma personalizzando il tutto con una superiore tecnica strumentale e con variazioni acustiche che vedono, tra l’altro, una particolare soluzione finale con una spinetta filtrata e psichedelica, la riuscita c’è. Lievemente inferiore al resto dell’album è la conclusiva “Ave Satánas or Tea-Time With Lucifer”, brano comunque breve che si apprezza meglio nella sua parte di mezzo e nel distorto guitar solo finale. Bella anche la copertina con l’immagine di un esemplare di stella marina gorgona rara creatura del Mediterraneo. Ottimo esordio che mi porta alla mente quello dei conterranei Black Bonzo, con i quali gli Hollow Earth condividono diversi amori del passato, speriamo però che, come i Black Bonzo, non si perdano strada facendo, anzi, che riescano ad affinare le personalizzazione dei temi scelti, che sono sicuramente vincenti. Esiste anche in vinile, approfittatene.
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Roberto Vanali
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