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OVERTURE |
Overture |
autoprod. |
2018 |
ITA |
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Gli Overture si sono formati nel 2010, sulle ceneri di una precedente esperienza musicale, a Mores, nell’entroterra sassarese, in un’area maggiormente nota per i numerosi allevamenti di cavalli. Questo loro primo lavoro autoprodotto giunge, dopo i consueti avvicendamenti di formazione, agli inizi del 2018 e comprende 5 tracce, più un brevissimo prologo. Gli eventuali sorrisini di sufficienza col quale qualcuno potrebbe accogliere questa autoproduzione proveniente da una zona tradizionalmente non proprio situata lungo le maggiori direttrici delle rotte musicali, si spegneranno senza dubbio con le prime note di questo grazioso dischetto, dedito al Prog italiano più classico, con bell’utilizzo di flauto e chitarra acustica, atmosfere spesso sognanti e, cosa che di certo non guasta, una registrazione quanto meno decente. Per certi versi ci troviamo a fare accostamenti musicali con la Locanda Delle Fate… e non è un brutto biglietto da visita, anche se il gruppo rivendica tra le proprie influenze nomi storici di maggior impatto, come Genesis, King Crimson, PFM o Camel. Le 5 canzoni presenti, alcune cantate in italiano e altre in inglese (con una pronuncia non propriamente oxfordiana, occorre dire), hanno tutte durate che si assestano tra gli 8 e i 9 minuti, salvo una che varca la soglia dei 13 minuti. Dopo il breve intro d’atmosfera, il Moog (o qualcosa che ci vuole assomigliare) si scatena nell’avvio di “Lux et Ombra”, brano piacevolmente movimentato che mi ricorda addirittura Il Bacio Della Medusa e che avrebbe potuto quasi trovar posto, anche per le tematiche, in “Discesa agl’Inferi…” del gruppo perugino. Anche la successiva “Il Mendicante” ha forti legami col Rock Progressivo Italiano, con un susseguirsi di voli, atterraggi e ripartenze in cui graziosi intermezzi di piano fungono da collante tra una parte e l’altra. “A Deer in the River” è una canzone dalle sfumature delicate che nella sua prima metà si muove su sonorità acustiche, morbide e soffuse, con liriche scarne e discrete, salvo impennarsi progressivamente, con un innalzamento anche della drammaticità del cantato. “Crop Circles” oltrepassa la durata media degli altri brani, raggiungendo e superando i 13 minuti, impiegati in modo egregio per un pezzo dalle atmosfere impregnate di mistero, con belle linee di basso e flauto e ritmiche sopra le righe solo in alcuni sporadici innalzamenti di tono. La conclusiva “Ephesia’s Chime” inizia con belle linee di piano e mantiene nel corso della sua durata impronte barocche e classicheggianti (e il flauto, una volta di più, dà il suo bel contributo) che si mescolano a tendenze fusion, con gli ormai abituali sbalzi di umore, pause e ripartenze. In conclusione, non possiamo fare a meno di annotare la nostra predilezione per il cantato in italiano, principalmente per la non ottimale padronanza della lingua inglese. Ad ogni modo, come ho avuto modo di dire, l’album è decisamente gradevole, se si alla ricerca di un Prog classico con poche concessioni a contaminazioni e modernità. La registrazione e comunque la qualità tecnica è senz’altro sufficiente, parlando di un’autoproduzione. Forse è auspicabile una maggior maturità nella costruzione dei brani, all’interno dei quali le continue pause alla fine possono risultare stucchevoli, ma questo può certamente arrivare con l’esperienza.
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Alberto Nucci
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