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ENINE |
The great silent |
ArtBeat |
2018 |
RUS |
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Dalle ceneri degli Algabas nascono questi Enine, su iniziativa del tastierista Ilya Frolov e del chitarrista Vladimir Mikhailov (animatore anche del progetto RMP, assieme a Ivan Rozmainsky dei Roz Vitalis). Il nome del nuovo gruppo deriva da un fiume che scorre nelle fredde e desertiche lande della Kamchatka (territorio siberiano noto ai giocatori di Risiko), terra d’origine del bassista Vladimir Kosygin. Completano la line-up il batterista Vladimir Nikonov e il flautista (che suona anche il djembe) Stanislav Tregubov. Con tre Vladimir in formazione, non ci stupiamo che la città in cui la band ha la sua base si chiami proprio… Vladimir. Dopo aver esordito nel 2017 con l’album “Live in Saint Petersburg”, il primo lavoro in studio della band è concepito come una raccolta di ideali colonne sonore di classici film muti; nello specifico si tratta di “Metropolis”, “Frankenstein” e “Nosferatu”. Una delle tracce fa peraltro pensare ad un riferimento anche al film “Il Gabinetto del Dr. Calegari”; purtroppo le scarne note del CD non aiutano in tal senso. Assecondando a tratti le tinte fosche che possono evocare questi film, la musica degli Enine, così come era per gli Algabas, si situa in territori prettamente Prog sinfonici, con sonorità talora attinenti al new Prog, mantenendosi però completamente strumentale. Le composizioni della prima parte dell’album sono in prevalenza agili, di breve durata, contraddistinte dall’onnipresente flauto che, in un certo senso, sostituisce il cantato. I 16 minuti di “Nosferatu” costituiscono tuttavia un (lungo) episodio a sé stante, in cui ci sono echi di folk nord-asiatico, con l’utilizzo di vocalizzi cavernosi che ricordano un po’ i canti tibetani, momenti di musica elettronica, la totale assenza del flauto e melodie talvolta ipnotiche, bizzarre ed inquietanti che sfociano poi nel simil-blues della traccia finale (non contando i 44 secondi della traccia di commiato dell’album) che ne è praticamente la continuazione. Si diceva della prima parte dell’album… che anch’essa presenta una brevissima traccia di introduzione. “The Curse of Dr. Calegari”, “The Light of Metropolis” e “Workers” hanno poi caratteristiche simili. Tutte e tre prettamente sinfoniche, la prima presenta atmosfere inquietanti, anche se non tenebrose, mentre la seconda può indurre ad accostamenti col new Prog d’inizio anni ’80; anche la terza è abbastanza ariosa, costruita su riff ripetitivi, un po’ spaziali, salvo interrompere la progressione con un assolo di (suoni di) organo liturgico, salvo poi proseguire con la chitarra che si mischia col flauto in una seconda parte che può ricordare un poco gli IQ. La successiva “Frankenstein” ha invece caratteristiche leggermente più psichedeliche e new wave, vagamente reminiscenti dei Twelfth Night. L’album ha un peso specifico non particolarmente elevato, bisogna ammetterlo, e scivola via senza lasciare tracce importanti del suo passaggio. Si tratta di un ascolto gradevole comunque, secondo il mio parere personale anche meglio realizzato rispetto al lavoro degli Algabas, ma della cui imprescindibilità mi sento di nutrire una certa perplessità.
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Alberto Nucci
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