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KUNGENS MÄN Fuzz på svenska Kungens Ljud & Bild 2018 SVE

Attivi dal 2012, con una line up piuttosto stabile nel tempo alla quale si sono aggiunti talvolta collaboratori esterni, i Kungens Män, o uomini re, per dirla in italiano, vantano già una ragguardevole discografia di 8 opere, includendo la presente, tutte pubblicate a partire dal 2015 e quindi nel breve arco di quattro anni. Il titolo è un omaggio al celebre pianista Jan Johansson che nel 1964 pubblicò un album dal titolo “Jazz på svenska” con interpretazioni personali di motivi della tradizione svedese. La tradizione anche in questo caso viene chiamata in causa ma il termine “fuzz” del titolo, a buon ragione, ci fa presagire sonorità decisamente più distorte ed acide, impregnate di quello spirito ribelle ed istintivo che ha caratterizzato negli anni del suo massimo splendore, fra i Sessanta ed i Settanta, il meraviglioso fenomeno del Progg.
Proprio nel contesto di questa ampia corrente troviamo le massime affinità ed in particolare verso quei gruppi che maggiormente hanno mescolato contaminazioni folk alla psichedelia, con un approccio basato fortemente sull'improvvisazione. La musica scorre a fiumi nelle mani di questi musicisti che amano buttare giù note su note come fossero interminabili appunti e pensieri di viaggio da fissare per sempre nella memoria. L'interminabile “Tesen” (quindici minuti di durata) apre l'album in modo timido, con flebili arpeggi, prendendola decisamente alla larga con i suoni interlocutori e rarefatti che ci mantengono in perenne attesa. L'effetto è quello di una lunga fase di riscaldamento che ci permette gradualmente di entrare in confidenza con la musica riverberante e libera. Il sax di Gustav Nigren, inizialmente defilato, inizia pian piano a scalpitare, mentre le melodie si avvitano su se stesse, inoculando scintille jazz ad una miscela ruvida e poco domabile che scivola via in un trip inebriante. Le impressioni ci riportano espressamente ai Träd, Gräs Och Stenar o anche ai Kebnekaise, con un retrogusto Kraut che rende tutto più stralunato ed interessante e immagino che la masterizzazione, a cura di Eroc, il batterista dei tedeschi Grobschnitt, possa essere stata in qualche modo di aiuto al raggiungimento di questo risultato. La lentezza della traccia ce la fa sembrare anche più lunga della sua effettiva durata e pensare che ci troviamo appena all'inizio di un doppio album (con sette brani in totale) forse ci fa percepire subito un po' di fatica. Ma la strada non si dimostra proprio in salita perché senza accorgervene cadrete letteralmente in maglie sonore che trascineranno via i vostri pensieri, facendovi distaccare dalla realtà in un viaggio di luci, fumi e colori iridescenti.
“Starta Gruff” è straniante e ronzante, con le chitarre di Hans Hjelm e Mikael Van Tuominen distorte che forniscono una base confusa per le contorsioni del sax. Più rilassante si profila invece la lunga title track (anche qui siamo sui quindici minuti), scandita dai ritmi semplici e svogliati della batteria di Mattias Pettersson. I synth di Peter Erikson completano la tavolozza sonora ma entrano in un insieme musicale confuso senza sollevarsi al di sopra degli altri strumenti, aggiungendo un ulteriore strato ad una patina di suoni sporchi e poco definiti.
Voglio infine citare i conclusivi diciannove minuti di “Ljupt djud” forse più liberi e disarticolati della media anche se in realtà, a veder bene, nessuna traccia prevale sulle altre e l'album va considerato nella sua globalità, come qualcosa che ti si appiccica addosso quando ci entri in contatto e da cui è difficile divincolarsi: non bello, né elegante ma a modo suo coinvolgente.
Questo trip, oltre che in doppio CD, potrà esservi servito in doppio vinile, ovviamente colorato (bianco e rosso) in edizione limitata a 300 copie numerate. Non vi resta quindi che procurarvi il biglietto.



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Jessica Attene

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