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BROTHER K …Degeneration beat… (a tribute to Jack Kerouac) Festa Della Musica Brescia 2018 ITA

Jack Kerouac, in quanti oggi sapranno chi effettivamente era? Si tratta di qualcuno e di qualcosa che va al di là della semplice curiosità storico-letteraria, perché oltre ad aver nominato uno dei più importanti scrittori statunitensi, con le sue opere – contenenti idee di liberazione, di approfondimento della propria coscienza e realizzazione alternativa della personalità – Kerouac avrebbe dato vita a quella marea rivoluzionaria che sarebbe stata la Beat Generation, andando a indirizzare irreversibilmente anche la strada nel mondo della musica. Anzi, fu proprio lui a coniare il termine “beat”, anche se ancora non aveva un significato di contestazione. Per Kerouac, infatti, equivaleva a “beato”, nato com’era da una vera e propria visione spirituale.
Il progetto dei Brother K vede coinvolto – tra gli altri – il vocalist Boris Savoldelli, cantante italiano dallo stile definito “rock-funk sperimentale”, addentratosi da tempo nel jazz di ricerca, avanguardistico, come possono testimoniare album tipo “Insanology” (2008) o “Protoplasmic” (2009). Per quest’ultimo lavoro viene tirato dentro l’autore Alessandro Ducali, il quale scrive di non conoscere affatto né Jack Kerouac e né altri autori della Beat Generation, accogliendo così la sfida di ricreare ex novo quella che l’autore statunitense stesso definiva prosa spontanea, cioè una sintassi strettamente legata alla musicalità, molto ritmata, che avrebbe influenzato non solo scrittori ma anche cantautori divenuti famosissimi come Bob Dylan. Questo “Degeneration beat” era nato quattordici anni prima con l’intento di ricreare uno stato d’animo tipicamente americano e traslarlo nella realtà del Settentrione italiano, sfruttando esattamente il concetto di grandi spazi che si trovano nel centro-nord degli USA e che hanno a loro volta influenzato Kerouac. Andando di pari passo con l’originale, si dà vita alla medesima poetica jazz di cui parlava lo scrittore a cui viene dedicato questo tributo, con quello che veniva da lui definito uno “stile bebop”. La versione dei brani risulta rimasterizzata e più dinamica, creando una perfetta sinergia tra musica e parole. I due elementi non possono essere scissi e probabilmente sarà per questo che inizialmente non si presterà attenzione a cosa possa aver scritto davvero Ducoli. Il fatto è che per la maggior parte del tempo tutto “suona” decisamente bene e quindi non ci si pone il problema se si tratti o meno di parole scelte per il loro ritmo e che messe una accanto all’altra non formino sempre un senso compiuto. O magari questa è solo la prima impressione, perché comunque si coglie l’ispirazione data dai benefici dell’amore carnale (che secondo Kerouac apriva le porte del paradiso) o la ricerca continua di un luogo capace di colmare finalmente la depressione del vuoto interiore.
Savoldelli canta con molto mestiere, ben sorretto soprattutto dal pianoforte di Federico Trencatti, ma anche dal contrabasso dello storico ospite Ares Tavolazzi degli Area. L’iniziale “Bookmakers’s Story” potrebbe sembrare una bossanova molto jazzata, la cui combinazione di parole e musica porta però alla mente un pezzo come “Saper sentire” degli Arti & Mestieri, fattore ancora più evidente nella versione “grezza” che viene riportata come bonus verso la fine dell’album, risultando in quella veste decisamente più veloce, viva, meno soporifera e ruffiana. Ben altro lo spessore di “Sotterranea part I”, con un bel dispiegamento di fiati, vaghi riferimenti a Demetrio Stratos ed un originale assolo distorto di chitarra, non si sa se ad opera di Andrea Bellicini o di uno dei tanti ospiti. Il pezzo poi confluisce nella parte II, in cui i fiati di cui sopra divengono cori folli e fumosi di una narrazione schizzata, inquietante soprattutto per la sua lucidità. Tra i pezzi da citare c’è anche “Sulla strada”, che sa tanto di quel jazz cantautoriale italiano, tanto retrò e scalcinato, forse per questo così fascinoso. Da ascoltare (piaccia o non piaccia) anche una composizione come “Maladea”, sorta di rap/hip hop in cui l’elettronica forma parte integrante dell’alienazione generazionale. Altra traccia da atmosfere “fumose” – resa tale grazie all’uso della tromba in stile Miles Davis – è “Brian Strike”, con un testo anche qui quasi rappato e dai toni tendenti all’aggressivo. “Punto di Luce” è a tratti parlata, a bassa voce, tra contrabbasso, commenti veloci di chitarra dilaniata, puntate di tromba in stile poliziesco, aperture solari inaspettate e pianoforte che suona incessante. Sarà un caso, ma l’intensa fase di basso presente su “Qui Dentro parte II” sembra una chiara citazione di “Cavern” dei Liquid Liquid. Un pezzo la cui irruenza monta sempre di più, sfociando nei territori dei C.S.I., col basso pulsante, le chitarre distorte e le voci effettate che risuonano come dei mantra in secondo piano. “Gennaio 1971” è il quieto contraltare che chiude l’album, prima delle tre bonus “grezze” di cui abbiamo fatto poco sopra cenno. Da questo punto di vista, anche “Qui dentro part II” suonava già decisamente bene.
Kerouac rifiutò l'ideologia politica che poi invece ostentò la Generazione del Beat, preso com’era nella sua esistenza di "strano, solitario, pazzo, mistico cattolico" – così si autodefiniva – e rigettando anche l’etichetta di scrittore beat. In questo lavoro c’è comunque la ricerca di quell’anticonformismo che finì poi invece per conformare dei veri e propri atteggiamenti sociali, confusi per stili di vita. Diciamo che il lavoro sembra riuscito, risultando anche fin troppo pulito nei suoni, magari meno nitidezza in alcune parti non avrebbe guastato. E poi, visto che spesso all’inizio e alla fine dei brani si sentono delle voci che tanto danno la sensazione di fermento metropolitano, viene da pensare che qua e là non ci sarebbe stata male la chitarra di Vernon Reid. Chissà, potrebbe essere un’idea per il futuro…



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Michele Merenda

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