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EVERSHIP |
Evership II |
Atkinsong |
2018 |
USA |
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Autori di un promettente esordio nel 2016 con l’album omonimo, la creatura di Shane Atkinson (tastiere, batteria, voce) si ripropone con (evviva la fantasia…) “Evership II”. La line up ha subito nel frattempo qualche ritocco e ora ad accompagnare Shane ci sono, oltre al cantante Beau West ed al chitarrista James Atkinson, John Rose (chitarre) e Ben Young (basso), qualche altro ospite e ad un’orchestra di 5 elementi. Splendida ed un po’ inquietante la copertina ad opera dell’artista Philip Willis. Come per il precedente album le composizioni sono opera di Shane Atkinson. Cinque i brani che costituiscono la raccolta con la lunga suite, 28 minuti, a chiudere il lavoro. Un prog-rock, quello del gruppo a stelle e strisce, che ha sposato il pomp made in USA (Styx in primis…) con i “germi” sinfonici instillati dagli Yes, anche se in versione semplificata ed “americanizzata”, oltre a qualche sprazzo della coralità Queen. Il tutto si concretizza già nel primo pezzo, “The Serious Room”, melodica, dalle sonorità pimpanti e con un bel refrain radiofonico. “Monomyth” è ancora più dura soprattutto nel tellurico inizio con basso e batteria davvero prepotenti ben coadiuvati dal vocalist West. Un “solo” di synth introduce il solito ritornello vincente anche se il meglio è rappresentato dall’intermezzo strumentale che precede la fase acustica perfettamente ripresa dal cantato di West. Il finale è epico-sinfonico DOC. “Real Or Imagined” inizia come una ballad acustica e rimane tale per circa tre minuti, quando un riff deciso dell’elettrica ne fa aumentare i decibel sino alla sua conclusione. “Wanderer” si mantiene sui buoni standard qualitativi sin qui mostrati: inizio pirotecnico con le tastiere a menare le danze prima che faccia capolino la voce del cantante che dimostra una volta di più la sua versatilità, ora fine cesellatore, ora rocker di razza anche all’interno del medesimo brano. E’ la volta di “Isle of the broken tree”, suite croce e delizia di ogni prog fan o quasi: epica, sinfonica, auto indulgente a tratti, melodica, heavy, tronfia… insomma di tutto un po’. Un brano che cavalca l’enfasi vocale dei Queen, l’epicità dei migliori Styx e qualche, inevitabile, lungaggine. L’album comunque conferma le buone impressioni dell’esordio: frizzante, sufficientemente mainstream, ma anche articolato e da ascoltare con attenzione. Per gli amanti del prog americano sia d’annata che di oggi (Mystery, Enchant…).
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Valentino Butti
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