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WISHBONE ASH |
Twin barrels burning |
Metronome |
1982 (Cherry Red Records 2018) |
UK |
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Bisogna tornare parecchio indietro nel tempo per avviare un discorso compito su questo disco. Partiamo dagli inizi degli anni ’70 e troviamo una band, forse meno incline alle forme progressive maggiormente in auge, ma decisamente più rock oriented. Gli Wishbone Ash dell’epoca rinunciano alle tastiere per dare spazio a due chitarre, scelta certamente non comune allora. Tempo un paio d’anni per maturare e nel 1972 arriva sul mercato il lavoro che in maniera unanime è considerato il loro capolavoro, vale a dire “Argus”. L’album dimostra notevole personalità e una straordinaria capacità di lasciare le trame sempre in bilico tra hard rock, rock e progressive, senza mai scendere in partiture complicate, ma mantenendo uno standard compositivo di ottima levatura. Ma già dall’anno successivo appare evidente che le trame progressive non sono nelle loro corde, prediligendo, invece, l’impatto più diretto del rock d’autore, magari tenendo stretta solo una certa trasversalità nel miscelare blues rock, country, hard rock, ballad e persino brani dal “tiro” deciso e dalle melodie immediatamente fruibili, in modo molto avvicinabile e identificabile con l’AOR. Nel decennio seguente, tra alti e bassi, tra album di discreta fattura e altri davvero poveri di contenuti, arrivano alla loro dodicesima fatica con questo “Twin Barrels Burning”, originariamente uscito nel 1982 per la AVM Records e ora in ristampa con questo doppio CD Cherry Red Records. La formazione nuovamente variata dal precedente, che vedeva, tra l’altro, un John Wetton in versione basso/voce/tastiere. Qui si confermano, come sempre, le due chitarre, ma non ci sono più i due Turner, Ted e Martin e al loro posto troviamo Laurie Wisefield alla chitarra e Trevor Bolder al basso, proveniente dagli Uriah Heep e dagli Spider from Mars di Bowie. Mentre sono ovviamente confermati il leader Andy Powell e il batterista Steve Upton. Quello che viene fuori dall’ascolto di questo disco, rinnovato, ma neanche troppo, nel sound (ed è decisamente meglio così), arricchito con alcuni inediti ed un secondo volume che rappresenta l’uscita di stampa americana con diversa scaletta rispetto all’originale inglese. Musicalmente, nulla è lasciato alla fantasia, tutto e diretto, immediato, è rock dal principio alla fine, ben suonato e ben cantato. È quel rock sporco / pulito, sporco nelle chitarre, pulito nelle voci, tanto in voga nel primo lustro degli ’80 e che spessissimo rimanda ad altri lavori coevi, mi sovvengono, ad esempio, i due lavori di Greg Lake con Gary Moore, ma anche band di southern rock tipo 38 Special o, ancora, certi brani di rock di una qualsiasi band dell’epoca che si barcamena tra episodi commerciali, che puntano dritti alla classifica ed altri dal piglio più orgoglioso e personale. Quel che è bello di questo disco, come si sarà capito, non è quello che normalmente cerchiamo nel progressive. Il bello di questo disco è che a distanza di quasi quarant’anni troviamo ancora canzoni rock fresche, cantate divinamente e dagli intrecci chitarristici perfetti. Questi brani (tutti, uno per l’altro) li potete schiaffare in macchina e sbattere la testa in su e giù, li potete portare ad una festa revival e ballarli (voi, non io) finché avete sudore da dare, li potete mettere nel lettore mentre lavate il pavimento, mentre stirate o date il bianco al soffitto del bagno, un’altra volta annerito, e ancora li potete trovare in un qualsiasi film americano come sottofondo ai titoli di coda, proprio come negli anni ’80. Tutto questo è quello che vi aspetta se il desiderio o la curiosità vi facciano venire in mente di acquistare questo disco. In quanto al prog, neppure una lontanissima, flebile, percettibile traccia. Tutti avvisati. Poco o nulla c’è da dire sul remix americano che, ovviamente, nulla aggiunge e nulla toglie, se non qualche suono un po’ più artefatto, più crudo e asciutto e una track list riveduta, chissà per quale motivo.
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Roberto Vanali
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