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KENTISH SPIRES |
The last harvest |
autoprod. |
2018 |
UK |
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Mi piacerebbe visitare Canterbury. Vorrei camminare per le strade del centro della città, vedere gli edifici storici, le scuole, i parchi e bere qualche birra nei pub, con l'illusione di carpire i segreti dei luoghi che hanno ispirato tanti musicisti e dato vita ad una scena musicale elevatasi al rango di genere. Un genere oggi ancora vivo e vegeto, seppur apprezzato solamente da irriducibili appassionati e relegato ad una visibilità assolutamente underground. I dischi che fanno parte della scena, o che si vantano di questa appartenenza, continuano ad uscire. È questo il caso di "The last harvest", dei Kentish Spires. Nonostante il nome e le più o meno velate intenzioni canterburiane, la musica contenuta nell'album in realtà è canterburiana solo in parte. Ci troviamo infatti davanti ad un miscuglio ben assemblato di progressive, pop e rock, con qualche richiamo al folk ed al jazz. Indubbiamente gli ingredienti sono di qualità e il risultato è come un piatto agrodolce che unisce vari sapori, buono ma non per forza alla portata di tutti. A voler essere precisi, il Canterbury sound è presente all'inizio del disco per annacquarsi durante l'ascolto sino all'ultima traccia, "The last harvest", una lunga (forse troppo) ballad progressiva costruita sulla stratificazione dei numerosi strumenti a fiato e a tastiera, con belle parti di chitarra, numerosi assoli, un intermezzo jazzato, melodia traboccante e un'atmosfera malinconica in stile "il disco finisce così, è stato bello, grazie a tutti e arrivederci a presto". Tornando ad inizio album, è facile intuire come i Kentish Spires si ispirino al sound canterburiano morbido e melodico più che a quello jazzistico. Il cardine del lavoro è costituito dagli arrangiamenti, studiati per far immergere l'ascoltatore in atmosfere ben conosciute. Basta solo ascoltare la lunga traccia di apertura, "Kingdom of Kent", bilanciata tra parti chitarristiche e altre con protagonisti i fiati e l'organo Hammond. Sono inoltre presenti intermezzi floydiani, che aggiungono ulteriore varietà, ma quello che non mi convince del tutto è la voce di Lucie V (che suona nel disco anche il violino), il cui tono basso e aspro a mio avviso non si adatta troppo alle atmosfere morbide suggerite dal brano. Il top del Canterbury sound emerge in "Spirit of the skies", una traccia in stile Camel/Caravan, con gradevoli interventi di flauto, chitarra e organo, arrangiamenti vocali più azzeccati ed un maggiore equilibrio generale. Discorso in parte simile può essere fatto per "TTWIG", ancora più rilassata e tendente ad un pop-jazz-latin che in un volo di fantasia musicale mi ha ricordato addirittura i magici anni '80 della singer anglo-nigeriana Sade. Non potrebbe essere più diversa la successiva "Introception", niente di più che un brano di hard rock settantiano con qualche momento più morbido e riff di chitarra che sforano nel banale. Rimangono "Hengist ridge", un interessante momento malinconico pop-rock, e "Clarity", piacevole sfogo in puro stile folk-rock. Ritengo "The last harvest" un bel disco, creativo e con una varietà stilistica che non cade nell'indecisione. A voler essere pignoli, mi sembra che l'amalgama tra la voce e le parti strumentali sia in prospettiva ancora da limare. C'è inoltre qualche momento un po' più debole della media, ma non in maniera determinante. Da ascoltare, ma non aspettatevi un puro viaggio musicale nel sound di Canterbury.
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Nicola Sulas
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