Home
 
LJUNGBLUT Villa Carlotta 5959 Karisma Records 2018 NOR

Il progetto di Kim Ljung, autore, multistrumentista e già agitatore di band attive in Norvegia fin dagli anni 90 (Seigmen, alfieri del rock alternativo) o dal decennio successivo (Zeromancer, di derivazione elettronica/industrial) giunge al ragguardevole traguardo del sesto album in quasi vent’anni di esistenza. Mentre per i primi due lavori si optò per la lingua inglese, è ormai consolidata la scelta dell’idioma norvegese, essendo evidentemente per Kim la lingua madre un mezzo più agevole per esprimere sensazioni spesso molto personali. Nel frattempo, il progetto si è evoluto da una valvola di sfogo dove convogliare la musica ritenuta non adatta per le altre entità ad un gruppo vero e proprio, di cui Ljung è cantante e tastierista, coadiuvato da Dan Heide alle chitarre, Joakim Brendsrød alle tastiere, Sindre Pedersen al basso e Ted Skogmann alla batteria, tutti coautori assieme al leader.     
L’album si apre con “Hasselblad”, che in seguito si rivelerà piuttosto atipica, con una ritmica ostinata e quasi meccanica, quasi a suggerire di trovarsi innanzi ad emuli dei Depeche Mode più oscuri; la componente emozionale è lasciata quasi esclusivamente ad un tappeto di tastiere ed una voce sofferta declamante la storia delle dodici omonime macchine fotografiche lasciate sulla superficie lunare dopo le spedizioni umane.
Ciò che seguirà smentirà quasi totalmente l’idea di un oscuro techno-pop, ed è infatti già “Oktober” a mettere le carte in tavola: il nucleo della proposta dei Ljungblut è un art-rock (perdonatemi la definizione) molto elaborato, alternativo al filone mainstream, che fa uso di strumenti reali ed organici, è spesso guidato da riff ed arpeggi di chitarre in slow-motion, prerogativa di un’estetica post-rock seguita da band come Explosions in the Sky o God Is An Astronaut. Gli arrangiamenti sono spesso arricchiti da interventi di synth su timbriche di archi con il ruolo di sottolineare ed aggiungere ariosità a melodie malinconiche, apportando un fascino innegabile a brani altrimenti confinati ad essere impenetrabili veicoli delle elucubrazioni mentali e sonore di Ljung. Ottimo esempio di quanto descritto è la bellissima “Til Warszawa”, solenne, sognante, coinvolgente, direi quasi sinfonica pur con il minimo della strumentazione: le chitarre lamentose sembrano ripetere nel loro linguaggio quanto Ljung esprime nella sua lingua, che risulta sorprendentemente musicale in questo contesto. Lo smarrito stupore con cui esordisce “235” è quasi figlio delle proposte più recenti dei Sigur Rós, ma il brano dimostra una propria personalità e si fa strada nel nostro animo grazie ad una lancinante chitarra suonata con l’e-bow; già alla quarta traccia ci sorprendiamo ad aver afferrato la cifra stilistica del gruppo, ed ogni paragone con altri artisti diviene puramente espediente per codificare ciò che non può essere messo su carta. La successiva “Superga” ci stupisce anche per la materia delle sue liriche, è infatti alla collina nei pressi di Torino che il pezzo fa riferimento; mi piacerebbe poter tradurre i versi ed apprezzare la connessione al tragico incidente aereo che nell’ormai remoto 1949 pose fine al mito della squadra di calcio passata alla storia come “Grande Torino”. Qui la musica, più che risultare drammatica, ispira rimpianto, stemperato infine in una consapevolezza di pace. Come contraltare, la più dinamica e palpitante “Diamant” sfoggia un refrain a metà strada tra un mantra e uno scioglilingua, senza comunque discostarsi troppo dalle coordinate ipnotiche che abbiamo imparato a conoscere. In “Himmelen som vet” sono invece il piano e il Mellotron a dettare la melodia, con una delle più sincere e nostalgiche interpretazioni vocali di Ljung. Qui lo spleen prende il sopravvento e non lascia spiragli liberatori, eppure la bellezza del brano risiede proprio in questo. “Aldri helt stille” e “Min krig”, a chiusura dell’album, sono entrambe elaborazioni della dolorosa condizione che affligge Ljung, un’emicrania cronica che ha probabilmente influenzato la sua stessa carriera: la prima, sempre lenta e cadenzata, esprime quasi una senso di catarsi, mentre la seconda, il cui titolo si traduce in “La mia guerra” è essenzialmente un canto quasi funereo su base di organo, harmonium e fiati, chiudendo il disco con un anti-climax e portandoci alla mente ancora i Sigur Ros che, mossi dagli stessi intenti, anni orsono chiudevano con la mesta “Heysátan” il loro album Takk.     
Un album molto sofisticato, autunnale, contemplativo, in grado di soddisfare il palato e le orecchie di chi cerca nuove espressioni per la proverbiale malinconia nordica e di chi si affaccia all’universo del progressive provenendo dall’ingresso laterale del rock alternativo (o viceversa!).



Bookmark and Share

 

Mauro Ranchicchio

Italian
English