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ARCADELT |
Arc8 |
Lizard Records |
2019 |
ITA |
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Negli anni ’90 molte bands vivacizzavano la ri-nascente scena Prog romana; bands nate ovviamente sulla spinta dell’entusiasmo e rimaste per lo più a livelli amatoriali, in tanti casi non arrivando nemmeno a registrare un demo-tape. Gli Arcadelt erano una di queste band ma per loro arrivò invece la registrazione di un album, nel 1994, intitolato “Enjoy”. Tutte le persone che ho conosciuto e che hanno avuto modo di assistere ad una loro esibizione dal vivo sono concordi nell’affermare che tale album non sia riuscito a catturare che una minima parte della carica che la band di solito sprigionava, in special modo grazie alla presenza sul palco di Pierfrancesco Drago; in effetti l’album, pur essendosi guadagnato timidi apprezzamenti, non ha raccolto quanto potenzialmente avrebbe potuto. Dopo di ciò gli Arcadelt sono entrati in stand by, col solo Pierfrancesco che ha continuato a dar notizie di sé con alcune partecipazioni e con la sua militanza nei Revelation. A distanza di 25 anni, ed in formazione originale (oltre a Drago, Fabrizio Verzaschi -chitarra-, Giacomo Vitullo -tastiere-, Fabio Cifani -basso- e Sandro Piras -batteria-), la band ha deciso di dare un seguito a quell’unico album, ammodernando il suono ma non rinnegando niente delle proprie esperienze pregresse. Abbiamo ancora un Progressive sinfonico intriso di new Prog marillioniano quindi, quasi interamente cantato in inglese, con un ruolo importante giocato dall’espressività del cantato, attorno al quale la musica si muove per supportare e sostenere adeguatamente le narrazioni. Dicevo che le 7 tracce sono quasi interamente cantate in inglese; quel “quasi” in realtà si traduce proprio nelle due tracce migliori dell’album, secondo il sottoscritto. In “Caledonia (The Inn of Happiness)” di italiano c’è solo un’introduzione recitata, che introduce questa strana favola… poi la canzone si sviluppa con liriche in inglese ma comunque in modo molto positivo nei restanti 7 minuti, con incursioni bizzarre classicheggianti, tonalità favolistiche, saliscendi umorali e comunque una grande prova strumentale della band. Dopo di essa, “Assenze” è interamente cantata in italiano ed ha connotati delicati, grazie anche alla presenza di un quartetto d’archi, un gentile pianoforte e una intensa prestazione vocale. Piacevole il brano con cui l’album si apre (“Behind the Curtain”), deliziosamente intriso in atmosfere sinfoniche ampie, decisamente orientato sul versante Genesis, a metà tra ambientazioni alla “Selling England…” e “Wind & Wuthering”, anche per i bei suoni di chitarra e tastiere. Leggermente meno convincente la successiva “The Heartbeat”, dai connotati più marillioniani, specialmente per le fughe di tastiere e l’assolo finale di chitarra, in cui manca forse un po’ di continuità all’interno del brano. In “Dogs in Chains” la voce è effettata e le sonorità sono spigolose e nervose, con ritmiche anch’esse nevrotiche, un brano un po’ strano ma da non sottovalutare. Dopo la coppia di brani precedentemente descritta, spazio per un altro bel brano (“Blood on”), il più breve di tutti e decisamente il più rockeggiante ma non per questo da disdegnare; viene da pensare ai momenti più tirati dei Marillion prima maniera, con le tastiere che sottolineano in modo non marginale un brano vibrante e dal bel groove. Chiudiamo con “The Blue Side”, altri 8 minuti da trascorrere nel pianeta New Prog, con impennate d’umore e ritmiche che si alternano a brevi momenti più rilassati. Tutti questi anni per dar vita ad un secondo album hanno dunque prodotto un lavoro più che dignitoso che rende finalmente giustizia a questa band e ce la restituisce, a quanto pare, in piena forma e pronta forse a nuove prove.
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Alberto Nucci
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