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THE JOHN IRVINE BAND Metaphysical attractions autoprod. 2018 UK

Trovo un po’ irriverente il nomignolo che talvolta si legge su John Irvine. Nomignolo che nel nostro idioma vorrebbe rappresentarlo come una sorta di Allan Holdsworth dei poveri. Certo, molto probabilmente il chitarrista in questione sarà cresciuto, come tutti noi e come qualsiasi altro musicista, con particolari idoli e con particolari mire, ma non credo sia il caso di ragionare in questi termini.
Ciò che produce è ovviamente molto legato alla musica fusion e alla grande tecnica che il genere richiede. Tenuto conto che questo musicista scozzese, che si presenta prevalentemente come chitarrista, è anche tastierista e bassista, la band si assottiglia molto per quanto riguarda la formazione. Oltre a Irvine appare solo il dinamico batterista Rich Kass e, un po’ da contorno e sonoricamente defilati, il sassofonista Rob Ironside e la flautista Gwen Kelso.
Il piglio decisamente moderno del lavoro si sposa bene con le dinamiche secche e solari della fusion, l’ottima incisione fa da contorno per chiudere un lavoro che assolutamente non porta nulla di nuovo, ma che si fa ascoltare con grande piacere.
Tanto per inquadrare il suono e il genere si potrebbe brevemente riassumere con un incrocio tra i lavori del già citato Holdsworth, i Brand X e i lavori di Andy Summers solista, con qualche vago, vago sentore canterburyano in ricordo della Phil Miller Cahoots o (non più di qualche secondo ogni tanto) di richiamo ai National Health meno sperimentali e più protesi al jazz rock iper tecnico.
Otto i brani selezionati per questo CD con lunghezze piuttosto variabili e soprattutto con temi diversificati. Ci sono le particolari e cangianti dinamiche di “Some bright spark” che in meno di sette minuti sposta tempi e temi come fossero fili d’erba al vento. C’è la profusione di tecnica nella strabordante “Hymn to winter sun”, spesso ariosa e incline agli spazi aperti, in altri momenti compressa e avviluppata su se stessa, ma sempre perfettamente rotolante. C’è il tocco funky e sbarazzino di “ Me and my idiophone”, quello più hard e grezzo di “(Into) The scrying glass”, ma anche quello più leggero e vellutato di “ Lucy's Brainwave”.
Pur non avendo (forse) niente più da dire di nuovo, il jazz rock trova in John Irvine un degno rappresentante, un compositore ed esecutore che sa unirne la complessità e, quando serve, l’orecchiabilità.
Dei sui tre lavori, credo di poter dire con tranquillità, che questo sia il migliore. Il notevolissimo studio sulle progressioni sonore e ritmiche esce fuori tenendo ben ferma la carica melodica, che comunque non manca mai. Il tutto compone un disco che mi sento senz’altro di consigliare.



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Roberto Vanali

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