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SFARATTHONS |
Appunti di viaggio |
autoprod. |
2019 |
ITA |
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Approccio con quest’album del tutto particolare, visto il nome che questo gruppo si è scelto. Sfaratthons infatti già suona strano anche per chi, non essendo abruzzese, non ne comprende immediatamente il significato; lo stupore cresce quando scopriamo appunto che questo gruppo di Borrello (provincia di Chieti) ha anglicizzato il termine dialettale sfarattoni, ovvero scansafatiche, bighelloni. La goliardia si spiega quando scopriamo che il gruppo si è originato verso la fine degli anni ’70, con il sano entusiasmo di fare musica con mezzi a dir poco amatoriali (fustini di detersivi, amplificatori artigianali, chitarre di 3a mano…). L’entusiasmo e la continuità nel corso degli anni vanno un po’ singhiozzo, com’è ovvio, e i componenti del gruppo si sparpagliano per il mondo. La band alla fine riesce, nel 2016, a pubblicare il suo album d’esordio, “La Bestia Umana”, un concept di natura ambientalista le cui origini datano proprio ai primi anni di vita della band. L’album viene autoprodotto ma, almeno per quanto ci riguarda, passa del tutto inosservato. Cerchiamo di rimediare con questo secondo lavoro che esce ancora una volta autoprodotto e in cui spicca, di primo acchito, la presenza come ospite del flautista Geoff Warren. Corredato da un ricco booklet arricchito dalle immagini dei dipinti di Luca Luciano, l’album è appunto concepito come un viaggio musicale e visivo in cui le 9 canzoni, in larga misura strumentali, sono solo una parte della proposta artistica. A questo punto, visto questo dispiegamento di forze, non stupisce più di tanto che, nonostante l’autoproduzione, la registrazione e l’aspetto tecnico-esecutivo dell’album sia a livelli più che decenti. E’ questa una piacevole sorpresa che ci predispone positivamente già mentre scorrono le prime caute note della lunga iniziale title-track. La musica comincia così a dipanarsi in una piacevole alternanza simbiotica tra sonorità Prog sinfoniche, ritmiche fusion e variazioni psichedeliche. I primi due brani e mezzo scorrono via senza praticamente una nota cantata (a parte qualche vocalizzo), con temi strumentali sinuosi e spezzettati, ingentiliti sia dalla costante, ma discreta, presenza del flauto che dalle ariose armonie delle tastiere. Solo alla metà di “Cielo Nero” compare un cantato dal timbro di per sé piacevolmente graffiante ma spesso un po’ incerto, abbastanza reminiscente del Prog italiano dei ‘70s. Inizia qui in effetti la seconda sezione dell’album che si distacca un po’ dalle note di avvio, fatta di composizioni dai connotati più semplici e lineari, con il cantato ben presente che si destreggia con liriche in italiano, in inglese e addirittura in abruzzese! Queste canzoni godono comunque di buone orchestrazioni, belle atmosfere di tastiere, bell’equilibrio strumentale… ma francamente, specialmente in qualche caso, troppo leggere e condizionate da un cantato che, come detto, non appare particolarmente efficace. L’album prosegue dunque sperimentando anche nuove commistioni tra il folk locale ed il Progressive sinfonico (“Vaije”) e giungendo al termine tra alti e bassi, lasciando però una punta di amaro in bocca per quanto musicalmente ci eravamo aspettati dopo i primi minuti dell’album.
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Alberto Nucci
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