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WATERSHAPE Perceptions autoprod. 2018 ITA

Giunge all’esordio questo quintetto vicentino prog-metal, composto da musicisti comunque già visti nella scena nazionale. Tra questi, il batterista Francesco Tresca degli Arthemis (fra gli altri), motore trainante nonché collante del gruppo. La band veneta cita influenze del proprio settore come Tool, Dream Theater e Pain of Salvation, ma anche mostri sacri del prog-rock come King Crimson e Gentle Giant. Ed è proprio con “Beyond the line of being”, il brano d’apertura, che vengono mostrati i vari riferimenti stilistici, per un brano che necessita sicuramente più di un ascolto. A livello strumentale si coglie in prima battuta la magniloquenza dei primi ’Theater, ma immediatamente si coglie che c’è ben altro; se i diretti interessati parlano in questo frangente di influenze anni ’70, queste le si potrebbero individuare nell’uso che Nicolò Cantele fa delle voci, molto simile a quello dei fratelli Shulman, perché a livello strumentale sono chiari i riferimenti ai King Crimson duri e alienati di inizio millennio, non certo quelli (seppur multiformi) dei seventies. Il pezzo è davvero intricato per vocazione, con un testo che parla dell’immortalità raggiunta dall’artista tramite le proprie opere. I testi sono interessanti e trattano di quelle percezioni che si colgono nel vissuto soprattutto quotidiano. Purtroppo i caratteri sono piccolissimi e leggere risulta davvero arduo!
“Cyber Life”, come è facile intuire, con la sua aggressività sembra urlare l’impersonalità dei rapporti umani scanditi oramai dai social network, con una parte centrale che sembra ricreare l’oblio del web, ripresa poi alla fine per accentuarne il caos esistenziale in cui si sprecano i propri giorni, confondendo la tastiera con le proprie mani e lo schermo che prende il posto dell’anima. “Alienation deal” ha toni decisamente più melodici, parla del mestiere di attore che porta alla spersonalizzazione di se stessi per diventare di volta in volta qualcun altro… fino a rischiare di perdere la propria identità. È forse l’unico pezzo in cui Mirko Marchesini si lascia andare a quello che è davvero un signor assolo di chitarra. A proposito di cangiamenti di personalità, “Stairs” è basata su dei cambiamenti continui (a volte piuttosto pesanti da digerire), ispirata alle opere pittoriche di M.C. Escher, artista capace di dipingere geometrie e realtà che andavano al di là dei parametri umani. Qui, oltre alla sezione ritmica col già citato Francesco Tresca e il bassista Mattia Cingano, si nota il tastierista Enrico Marchiotto sia per alcuni passaggi di pianoforte nelle parti più soft e sia per delle parti soliste tipiche del genere.
“The Puppets Gathering” è il singolo su cui è stato creato un videoclip molto onirico (grazie alle opere di Sara Zamperlin) e vede la collaborazione di Chiara Vecchi che duetta alla voce con Niccolò. Si lascia molto spazio all’elettronica in questa canzone che parla degli incontri con archetipi sottoforma di fantocci, tramite i quali si uscirà poi trasformati. Un brano strano, che per un breve tratto ridiventa convenzionale con dei passaggi di tastiera e di chitarra all’unisono. Le atmosfere diventano ancora più intime con “Inner Tide”, una specie di ninna nanna che Tresca ha dedicato alla figlia Anna, sviluppata essenzialmente tramite voce, tastiere (molto pianoforte) e sax ad opera dell’altro ospite Antonio Gallucci. Dopo il prog-metal di “Fanciful wonder” e dei suoi demoni interiori, “Seasons” si dimostra composizione più interessante; cantato con sentimento da Cantele, questo è un brano molto più morbido, suonato col chapman stick (riconoscibile chiaramente nelle ultime battute) da Mattia Cingano. Si affrontano – come da titolo – le varie “stagioni” della vita, passando così per differenti stati d’animo. Si chiude con i temi fantascientifici di “Cosmic box #9”, in cui una specie di demiurgo parla della sua creazione di tanti universi, poi conservati in tante scatole. Sì, ma… non sarà che anche lui poi farà parte di una scatola ancora più grande? Le sonorità sono per forza di cose “tecnologiche” e chiudono l’album con il sassofono di Gallucci, che commenta così lo scoramento di chi pensa alla propria natura divina e si ritrova anch’egli nella scatola, non capendo chi possa aver fatto tutto ciò.
Non male questo esordio; occorre comunque riprendere alcune soluzioni solo accennate e poi mai più ripercorse, come ad esempio le voci in stile Gentle Giant e qualche buon assolo. La strada che si vuol intraprendere pare essere quella di natura “metallica” e questo potrebbe magari sfavorire l’uso sistematico di certi elementi.



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Michele Merenda

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