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RAMROD |
Jet black |
Black Widow Records |
2019 |
ITA |
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In inglese, la parola ramrod indica quella particolare bacchetta metallica usata per spingere la polvere da sparo nel fucile. Questo era anche il titolo di un pezzo ad opera di Bruce Springsteen, contenuto sul quinto album “The river” nel 1980. La band di Novara qui trattata, nasce nel 2013 e si ribattezza proprio come la canzone del “Boss”, facendo però in principio cover di southern rock. Difatti, la formazione iniziale prevedeva tre chitarre, proprio come certe compagini musicali sudiste. Dopo un EP, ecco l’esordio su full-length con “First fall” nel 2016, per poi approdare su Black Widow. Il passaggio all’etichetta genovese sembra aver fatto decisamente bene, perché il sound è diventato più corposo e si è cominciato a spaziare maggiormente, con puntate verso la psichedelia e leggermente verso certo hard-prog. Sugli scudi si ergono i due giovani Picaro, vale a dire la tanto minuta quanto graziosa (e brava!) Martina assieme al fratello Marco (chitarre, flauto, sitar, seconda voce), che poi sarebbero anche i fondatori del gruppo. Assieme a loro, il bassista Emanuele Elia, il batterista Daniel Sapone e – last but non least – il tastierista Adriano Nolli, che con qualche anno in più sulle spalle porta la giusta dose di esperienza ed un’ulteriore propensione ai gloriosi anni ’70 (come ha sottolineato Red Ronnie durante un festival a cui i ragazzi hanno partecipato, impressionante la somiglianza con Joe Vescovi dei The Trip!). La prerogativa di essere sempre in giro per l’Europa a suonare contribuisce senza dubbio a raggiungere una veloce maturazione; i nostri non si possono certo definire originali, in quanto ripropongono stilemi già ampiamente in voga alcuni decenni fa e poi ripresi ultimamente, ma resta il fatto che tutto ciò viene eseguito con grande energia e soprattutto professionalità. Nella scena nostrana viene da pensare ai Wicked Minds e al progetto parallelo Electric Swan. Volendo poi rimanere sempre in Italia e nel contesto delle vintage rock band, l’altro riferimento è quello della Old Rock City Orchestra. All’estero, tra le band più recenti, senza dubbio gli svedesi (ma con chitarrista francese) Blues Pills. In effetti, Martina sembra abbastanza vicina al modo di cantare di Elin Larsson, anche se la voce della cantante piemontese risulta meno dura e più suadente, come le gloriose cantanti dei seventies tipo Linda Hoyle degli Affinity. Si parte con “Don’t Call Me Sunshine”, eseguita spesso dal vivo proprio durante i vari festival; di clichè in questo rock-blues ce ne sarebbero parecchi, ripresi soprattutto dalla band scandinave, ma le variazioni vocali giocano un ottimo ruolo, assieme ad alcuni passaggi di flauto. E a proposito di riferimenti evidenti, la successiva “Ares Call” ricorda nelle strofe un classico come “Strange Kind Of Woman” dei Deep Purple ed in generale un po’ tutto quell’album (ignobilmente sottovalutato) a titolo “Who do we think we are” (1973), le cui metriche sarebbero state iper-vitaminizzate dagli Spiritual Beggars con “Sad Queen Boogie”. Certo, nonostante “Sorrow” possa ricordare le ballate dei Siena Root – anche loro periodicamente con delle donne ai microfoni –, questo si dimostra un pezzo davvero suadente, dove Martina fa vivere il volto notturno ed epico della solitudine. “Lion Queen” invece recupera come da titolo le energie e ricorda la Beth Hart più scapestrata, giocando su dei ritmi blues molto frizzanti, con finalmente un bell’assolo che però sarebbe dovuto durare un attimo in più per diventare davvero trascinante. È comunque un momento di svolta nell’album, perché su “Glass Of Wine” si va pian piano mostrando qualcosa di più complesso; dopo la rabbia cantata con studiata lentezza da Martina, si succedono passaggi in stile Allmann Brothers con altri che sembrano un evidente tributo a “Money” dei Pink Floyd, fino a chiudere con la PFM e poi riprendere col tema iniziale. “Turning Bad” potrebbe essere un rock blues suonato dai summenzionati Siena Roots o dai Three Seasons in un saloon trapiantato in Svezia, mentre “Bluesy Soul” è un’altra ballata blues che si segnala tra gli episodi migliori. Una chitarra acustica limpidissima accompagna con i suoi arpeggi ed intarsi la voce che sale e scende di tono per metà brano, per poi subentrare la batteria con ritmo marziale che scandisce il cammino nella lunga strada. “Sweet Mel” recupera ancora le energie (vaghi echi dei Mother Station), distinguendosi per gli interventi divertenti del pianoforte ed un approccio sicuramente southern. La conclusione è affidata agli otto minuti di “Leda”, dedicata all’omonima bisnonna dei due Picari. Composta dopo aver ritrovato i diari della donna, è stata eseguita subito live per il loro release party. Un’atmosfera che grazie al sitar e all’andamento per buona parte quieto odora di incenso e dei richiami esotici che echeggiarono alla fine degli anni ’60. Molte le affinità tra le due figure femminili separate da un secolo esatto, non ultima la somiglianza delle date di nascita: 21.01.1892 ed il 21.10.1992. Pare che Leda fosse anch’essa un’artista, sia pittrice che musicista, e probabilmente ciò dimostra che certe prerogative sono di famiglia. Un fascino misterioso ulteriormente scandito da un passaggio di flauto in stile Jethro Tull, montato sempre di più dalla subentrante chitarra elettrica e dai sintetizzatori di nuovo nello stile della PFM, chiudendosi alla fine nel buio più totale. Quello stesso buio che rientra nel titolo di questo secondo lavoro (“nero corvino”, per l’appunto). Va bene, qui non c’è nulla di nuovo, si gioca sul già sentito e poi, tra l’altro, i ragazzi si dimostrano talmente esterofili da cantare in inglese e non in italiano. Perché quindi non andarsi a sentire gli originali e perder tempo con una delle tante copie, per quanto bene eseguite? Beh, innanzi tutto perché qui c’è tanta bella cultura musicale, ben declinata, e se piacciono certi stili non si capisce perché non dare una chance a chi mantiene ancora in vita una bella attitudine. È la dimostrazione che certo rock – con tutte le sue sfumature – non è certo morto e se anche non si sforna più nulla di originale (che non è detto sia ascoltabile!) questo non vuol dire che non si tratti di una proposta valida. L’unico consiglio è di osare un po’di più la prossima volta e magari mostrarsi ancora più sfrontati.
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Michele Merenda
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