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ANNO MUNDI |
Land of legends |
Black Widow Records |
2020 |
ITA |
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Col quarto album i romani Anno Mundi approdano alla Black Widow e compiono un decisivo passo in avanti. Per comprenderlo a fondo occorre stavolta partire dalla fine, cioè dalle sei bonus tracks estrapolate dal precedente “Rock in a danger zone”, la cui prima traccia qui riproposta, “Megas Alexandros”, è tanto prog quanto potrebbe esserlo un brano dei Virgin Steele! Questo per dire che le canzoni appartenenti alla produzione precedente potevano al massimo suonare come un heavy metal aggressivo con dei risvolti epici ed anche qualche ritornello accattivante, ma il settore rimaneva pur sempre quello, inutile volerci a suo tempo vedere altro. Anzi, l’attitudine era sicuramente sabbathiana e il sound parecchio scarno. “Rock…” è stato però il passaggio che in embrione ha portato ai risultati attuali, ponendo una line-up stabile: ai fondatori – cioè il batterista Gianluca Livi e il chitarrista Alessio Secondini Morelli (apprezzabile il suo EP solista de 2017, intitolato “Hyper-Urania”) – si è affiancato il cantante Federico “Freddy Rising” Giuntoli proveniente dai Martiria, senza assolutamente dimenticare il tastierista Mattia Liberati e il bassista Flavio Gonnellini, entrambi nei progsters Ingranaggi Della Valle. Un ensemble quindi molto variegato, che con l’approdo alla nuova etichetta ha fatto maturare un lavoro decisamente eclettico. Il sound è sempre quello da vecchio vinile di compagini oscure anni ‘70 e anche ‘80; sicuramente la produzione è migliorata e quindi non si avverte più quella sensazione statica tipo audiocassetta ottantiana da “gruppo metal che vuole suonare cattivo”, ma che invece pare sfiatato. L’iniziale “Twisted World’s End” farà la gioia di chi ama compagini metal tipo gli svedesi Hammerfall: incedere solenne, riff cattivi e pesanti ma con strofa fine ed orecchiabile, preceduti comunque da arpeggi molto melodici che danno un senso di mistero arcano… I recensori hanno parlato della migliore prova di Giuntoli, ma a dire il vero negli acuti appare fin troppo sforzato. “Hyerborea”, quindici minuti divisi in tre movimenti, appare subito differente. Nei primi due movimenti, “Dreams” e “Nenia”, sono protagonisti il violino di Alessandro Milana e anche la chitarra acustica di Renato Gasparini degli storici Agorà. Dapprima con un andamento molto rilassante, a cui poi segue il sintetizzatore di Liberanti, per un effetto assolutamente progressivo; dopo subentra una nenia (per l’appunto…) con delle voci infantili, che invece di far addormentare catapulta chi ascolta nel caos e quindi nell’angoscia. È quindi il preludio al terzo movimento, “The Last flight”, nello stile dei Savatage più cattivi e influenzati durante gli eighties (a tratti) proprio dai Black Sabbath. Belli gli assoli di Morelli alle sei corde, in cui si inserisce a un certo punto il basso solista dell’altro ospite Domenico Dente. Strani effetti fanno da preludio a “Dark Energy”, ballata notturna e acustica per chitarra e voce, dove Giuntoli non deve far alcuno sforzo, canta in modo quieto e comunica parecchia espressività. Il sound oscuro e raffinato continua nei nove minuti abbondanti di “Hyperway To Knowhere”, la cui prima sezione porta alla mente gli Abiogenesi, addentrandosi quindi nel dark-prog vero e proprio. Ma dopo sei minuti vien fuori il retroterra degli Ingranaggi e ci si sposta verso un rapido jazz-rock che continua a mantenere la sua anima buia, dove tastiere e chitarra danno sfoggio di assoli intensi. Dei fischi aprono poi la conclusiva “Female Revenge”, altra suite di quattordici minuti divisa in cinque parti. Inizialmente sembrava che potesse davvero essere la migliore del lotto, poi però si va normalizzando. Quel che segue immediatamente, somiglia a “Man on the Silver Mountain” dei Rainbow, sempre però con la solita produzione asciutta che tende a sottrarre enfasi. Andando avanti, i richiami del Sabba Nero tornano a farsi sentire, salvo poi giungere alla fine con i vocalizzi di Francesca Luce che ben si adattano alle strofe di Giuntoli, con un altro bell’assolo di Morelli. L’album – lo si sarà capito – è molto eclettico, ma allo stesso tempo riesce a mantenere una certa coerenza. Si parla sempre e comunque di un gruppo hard and heavy, che stavolta amplia il proprio orizzonte musicale. Per i fans della musica dura che tende a sonorità e tematiche cupe, molto probabilmente questo risulterà un must. Vedremo quale strada verrà percorsa in futuro, sperando che i suoni acquisiscano un altro spessore. Anche se al momento la band sembra voler suonare all’orecchio proprio in questo modo. Bella l’immagine di copertina; sembra che i castelli imponenti e tenebrosi siano diventati un loro tratto distintivo.
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Michele Merenda
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