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IN VINO VERITAS Grimorium magi Black Widow Records 2019 ITA

Occorre prestare molta attenzione nel fare una ricerca su questa realtà carrarese, perché esistono molte band omonime, spesso accomunate dalla celebrazione in musica dei poteri alteranti dell’alcol, come del resto il nome fa ben supporre. I nostri si presentano come un quintetto bardato in oscuri abiti medievali, su cui magari proprio il vino agisce in tutto il suo potere psicotropo, portando alla mente figure che in secoli lontani uscivano a tarda notte dalle taverne e andavano sbandando in strette vie, buie e impregnate dal fetido lezzo della maligna cospirazione. È il sentire dell’essere ribelle alle regole precostituite, che darà un giorno i natali all’anarchia; ribellione soprattutto ai dogmi religiosi, propugnando rituali pagani mai sopiti, che già nel cuore dell’età medievale suonavano come antichi e arcani. Questo non è certo prog, ma una rivisitazione e conseguente adattamento del folk che ha le sue radici in buona parte dell’Europa occidentale, quella che per intenderci tremava raccontando storie di streghe e libri di magia nera, come il titolo di questo terzo album fa ben intuire (per il momento il debutto “Ludicantigas” risulta esaurito, assieme al DVD “Bestiarium”). La maturazione sembra essere davvero giunta, perché se durante gli esordi venivano estrapolati spezzoni dal classico repertorio da visione medievale come i “Carmina Burana”, indissolubilmente legati dall’immaginario cinematografico all’epopea di “Excalibur”, oggi i brani sono tutti originali e al classico folk celtico vengono mischiati quello orientale e quello mediterraneo, che assieme ad alcuni spunti psichedelici e persino trance creano una mistura trasfigurante e a volte persino allucinata.
Non si può non sottolineare la presenza di strumenti moderni come il basso fretless e la batteria, suonati rispettivamente da Emanuee Ysmail Milletti e Nicola Caleo, quest’ultimo anche ai sequencer, oltre a flauti, sax e didgeridoo ad opera di Nicola Bellulovich. Accanto a loro, Siro Achille Nicolazzi con la sua ghironda e il polistrumentista Alessandro Cucurnia (in arte Arthuan Rebis), che otre a chitarre e tastiere si cimenta anche con la nyckelharpa, un antico e complesso strumento svedese ad archetto. Probabilmente, l’attuale paradigma musicale viene ben esplicato nell’iniziale “Serpens Mundi”, che con il suo mischiare tradizioni potrebbe ricordare i Tempest di Lief Sorbye e Adolfo Lazo, ma (come già accennato) qui l’approccio è volutamente più oscuro, facendo ribollire in sottofondo degli effetti che ricordano il pentolone di un mago (nero, ovviamente). Un motivo che pare continuare nella seguente “Precatio Terrae”, dove subentrano i cori simil-gotici in latino di Rebis (alias Cucurnia) e Nicolazzi; c’è da evidenziare la linea di basso, la vera spina dorsale della composizione, oltre al senso di estraniamento ultraterreno scaturito dal repentino cambio musicale intorno a metà brano. Sia l’atmosfera che i suoni si sono fatti più densi e la “Danza del Troll”, che proietta come è ovvio nelle terre del Nord, più va avanti e più sembra risuonare anche di echi del Meridione italiano. Uno dei momenti migliori è quello di “Benandanti”, ispirato ai protagonisti omonimi di quella congrega contadina pagano-sciamanica friulana esistita tra i XVI ed i XVII secolo. Tornano a farsi sentire le sonorità vibranti che ribollono, soprattutto perché costoro si adoperavano a difendere i campi dai malefizi stregoneschi; erano coloro che nascevano avvolti dal sacco amniotico (avevano un amuleto con la propria placenta che li proteggeva), capaci poi in età adulta di uscire anche dal proprio corpo. In “Taranis” si respira la brezza solenne delle fredde scogliere dei paesi celtici… e non potrebbe essere diversamente, visto che proprio in quei luoghi Taranis era venerato come il dio del tuono, simile al Giove romano (la cosa particolare, però, è che con lo stesso nome vi era una divinità simile anche in Piemonte!). E visto che ci si muove tra le due sponde dello Stretto della Manica, “Mabinogi” – tratto da Mabinogion, gruppo di testi estrapolati a loro volta da manoscritti gallesi che trattavano di avvenimenti medievali – è una trasposizione musicale allegra di grandi imprese eroiche.
A Zignango, in Liguria, venne trovata nel 1827 una stele-statua di una divinità antropomorfa con un’iscrizione in alfabeto etrusco ma in lingua probabilmente celtica: “Mezunemusus”; secondo una traduzione significherebbe «Io che mi trovo in mezzo al bosco»; secondo un’altra, invece, «Colui che sta in medio nemore, che si prende cura dei luoghi sacri». A questa antichissima divinità sconosciuta ai più, i nostri dedicano i due minuti e mezzo del pezzo omonimo, in cui le percussioni e il sax mischiano atmosfere settentrionali con suggestioni mediterranee, rammentando che prima dei Romani la Pianura padana era un coevo di popolazioni dalle provenienze più disparate. Dopo “Gargoyle”, tributo gotico ai mostri di pietra usati nelle cattedrali del relativo periodo per far defluire l'acqua dai tetti (ma che secondo le leggende potevano animarsi per combattere i pericoli occorsi agli edifici sacri), arriva “Morgana”, ballata cantata in inglese da Federica Lanna, che farà la gioia degli amanti delle band scandinave con voce femminile ridondante. “Carmina Skaldica” non aggiunge molto altro, se non alcuni controtempi nella seconda parte, quindi si conclude con “Il Matto e il suo Scettro”, dove Rebis suona un flauto dal suono arcano. Figura legata ai tarocchi, qui viene raccontata in italiano con un intreccio che oltre ad Angelo Branduardi potrebbe ricordare anche certe trovate di Fabrizio De André.
Si chiude così un lavoro che innanzi tutto denota un forte spessore culturale, scaturito da un continuo spirito di ricerca. Le composizioni durano al massimo quattro minuti e non si corre il rischio di stancarsi, un problema che in questi casi risulta spesso concreto, visto che comunque si tratta di ritmi spesso molto simili tra loro. Quando questo sta per accadere… ecco che l’album termina come per magia. Occorre quindi tornare a riascoltarlo per cogliere e/o assimilare alcuni spunti che possono essere stati fruiti senza metterci la dovuta attenzione. Nel suo genere, un lavoro ben fatto ed eseguito, che all’interno del bel digipack cita felicemente anche il leggendario Ermete Trismegisto: «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare i miracoli di una sola unica cosa». Si spera di risentirli a breve, magari con ulteriori e nuovi elementi popolari da approfondire.



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Michele Merenda

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