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ZOPP |
Zopp |
Bad Elephant Music |
2020 |
UK |
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Ad inizio 2020, l’annuncio dell’imminente uscita di questo nuovo, sconosciuto, gruppo inglese, con l’anticipazione di una traccia, ha suscitato nel piccolo mondo Prog un po’ di scompiglio. La traccia che si poteva ascoltare era a dir poco entusiasmante e presupponeva un bell’album di Prog canterburyano, sulle tracce di Caravan, Egg, Hatfield & The North, etc. Molti, dopo l’ascolto completo del disco, paiono aver visto leggermente raffreddare i propri entusiasmi… ma forse ciò è dovuto proprio alle eccessive aspettative che si erano create. Questi misteriosi Zopp in sostanza non sono altro che l’emanazione di un unico musicista polistrumentista di Nottingham, Ryan Stevenson, autore di varie musiche per colonne sonore, che lavorava a questo suo primo album da una decina d’anni, a quanto pare, dopo essersi appassionato al Prog prima grazie a Porcupine Tree ed Anekdoten e rimanendo poi folgorato dal fortuito ascolto degli Egg. Accanto a lui troviamo un nome conosciuto dai proggers italiani non di primo pelo, quello del batterista Andrea Moneta, protagonista dei tre album dei romani Leviathan che, sul finire degli anni ’80, furono tra le band che segnarono la rinascita del Prog italiano. Accanto a loro troviamo ospiti e collaboratori illustri quali Theo Travis e Andy Tillison ed altri meno conosciuti (la vocalist Caroline Joy Clarke e il sassofonista Mike Benson). Dopo la presentazione che l’album fa di sé, con quella evocativa teiera che gradualmente si trasforma in uno scorpione, la musica inizia alla grande: dopo il breve intro strumentale di “Swedish Love” irrompe nelle nostre orecchie la scoppiettante “Before the Light”, proprio la traccia che ci aveva così ben impressionato come anticipazione dell’album stesso, giocosa ed esuberante. L’armamentario tastieristico di Stevenson (tra cui notiamo Mellotron M4000D, Hammond, Korg CX-3, Pianet T, oltre al piano e vari synth) viene sfruttato in tutte le sue potenzialità (e i contributi di Tillison ne incrementano addirittura la potenza di fuoco) che tuttavia non risultano ridondanti o soffocanti, costruendo un impianto sonoro dalla confortevole ambientazione decisamente vintage in cui trovano anche posto digressioni ed atmosfere che ci possono riportare, oltre ovviamente ai più bei nomi del Canterbury (che è la componente preponderante), al Mike Oldfield degli inizi, allo Zappa di fine anni ’60 (“Lumpy Gravy” e “Hot Rats”) ed addirittura al Progg svedese di Splash o Fläsket Brinner. I brani successivi sono obiettivamente meno entusiasmanti, dopo questo superbo avvio, e con umori un po’ altalenanti. I primi ascolti possono sfociare effettivamente in un certo disincanto, dopo l’entusiasmo iniziale. “Eternal Return” ha vaghe ma riconoscibili reminiscenze scandinave che riescono a sorprenderci mentre le successive “Sanger” e “Sellanrå” non impressionano per motivi diversi (la prima gira un po’ troppo su se stessa, troppo ambient la seconda). Torniamo su alti livelli con “V”, graziosa cavalcata dai sapori quasi cinematici, con “Being and Time”, in cui la chitarra sembra voler metter finalmente fuori la testa per farsi sentire, e con “Zero”, brano che riprende un po’ della dinamicità dell’avvio. Si chiude con la nona traccia, la più lunga di tutte (poco più di 9 minuti), l’unica in cui ci sia la presenza del sax che tuttavia la caratterizza dall’inizio alla fine. Bella… molto bella, anche se non ai livelli di “Before the Light” che, inevitabilmente rimane il paradigma che condiziona l’ascolto e il giudizio su tutto il resto dell’album. Un album che comunque è molto più che piacevole ed è inesorabilmente (a meno di belle notizie nella seconda metà di questo strano 2020) destinato a venir nominato in molte delle classifiche di fine anno.
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Alberto Nucci
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