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BRIDGEND Rajas autoprod. 2020 ITA

Il progetto Bridgend prende origine nel 2015 quando il musicista romano Andrea Zacchia, al termine della sua permanenza in Galles, proprio nella cittadina di Bridgend, torna a Roma con un sacco di idee e di musica nel bagaglio e forma in poco tempo la sua band. L’anno successivo esce il loro primo album che narra la storia del viaggio di Rajas vero l’isola di Rebis, un po’ allegorico e (ovviamente) anche introspettivo. L’album si intitola, per l’appunto, “Rebis”. Quattro anni dopo esce questo secondo album che rappresenta in pratica il prequel del primo album, narrando le vicende di Rajas precedenti a quelle raccontate nell’esordio. Quest’opera è stata registrata in vari studi, tra l’Emilia Romagna ed il Lazio, e la formazione, tutta rinnovata, che le ha dato vita è formata da Zacchia stesso (chitarra), Leonardo Rivola (tastiere), Massimo Bambi (batteria) e da Matteo Esposito (basso).
Le fonti di ispirazione della band, o sarebbe meglio dire di Zacchia, si esplicitano nei nomi di Mogwai, Marillion e Pink Floyd. Miglior descrizione non ci potrebbe forse essere per fornire una prima descrizione della musica di quest’album, in bilico tra post rock e new Prog, atmosfere ampie e con colorazioni delicatamente psichedeliche, cesellature accattivanti e sonorità che virano spesso verso il jazz-rock.
A differenza del suo predecessore (che vedeva la presenza di tre attori teatrali a dar voce ai personaggi), “Rajas” è interamente strumentale, affidando quindi la narrazione interamente alla musica. La durata dell’album è limitata e rimane appena al di sotto dei 40 minuti, stante la sua release in vinile. Altra differenza con l’esordio, oltre ai titoli in italiano, è costituita dal fatto che i brani di questo costituivano tre lunghi movimenti mentre “Rebis” contiene sei brani apparentemente staccati l’uno dall’altro, anche se costituenti, come si diceva, un concept unico.
La musica fluisce dinamicamente lungo le prime tracce dell’album, riservandosi alcuni momenti di languida riflessione in occasione delle lunghe tracce centrali. Quel che traspare è la costante attenzione per i particolari, per le piccole cesellature che tuttavia non vengono mai appesantite da un’abbondanza di suoni che una strumentazione ridotta all’essenziale non può e non vuole dare. Non ci sono infatti sovraincisioni o particolari ricerche sonore e l’album potrebbe addirittura sembrare registrato in presa diretta.
Un lavoro abbastanza piacevole che si mantiene comunque su livelli d’ascolto piuttosto disimpegnati, raramente scendendo in profondità quanto a livello di attenzione che viene richiesto.



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Alberto Nucci

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