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PURE REASON REVOLUTION |
Eupnea |
Inside Out |
2020 |
UK |
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Sembrava dovessero spaccare il mondo i Pure Reason Revolution con un debutto discografico pubblicato in pompa magna niente meno che dalla Sony BMG che all’epoca tentò persino di utilizzare l’etichetta Prog come vessillo di un nuovo fenomeno commerciale. Ma il tempo è galantuomo e rimette ogni cosa al suo posto. Sappiamo infatti che non solo non c’è stato un nuovo ritorno di fiamma del Prog, rimasto passione per pochi intimi, ma non c’è stata neanche una grande carriera per il gruppo inglese che pian piano si è sfaldato. Al pur ottimo “The Dark Third” (2006), la cui uscita fu tanto strombazzata, seguirono, quasi nel silenzio generale, i non entusiasmanti, almeno dal mio punto di vista, “Amor Vincit Omnia” nel 2009 e nel 2010 “Hammer and Anvil”, che si allontanavano dal loro stile originario per esplorare versanti più elettronici, e poi il silenzio dopo lo scioglimento avvenuto nel 2011. A 10 anni dal loro precedente album i Pure Reason Revolution tornano a sorpresa e si contraggono a un duo formato dai cantanti e multi strumentisti Chloë Alper e Jon Courtney, con l’apporto limitato del vecchio chitarrista Gregory Jong e la collaborazione del batterista Geoff Dugmore che aveva già suonato nell’album di esordio. Proprio all’esordio strizza l’occhio il nuovo album, riscoprendo quelle accattivanti melodie che tanto ci avevano suggestionato, con tanto di cori ed atmosfere psichedeliche ma con impasti che contengono anche alcuni degli ingredienti più recentemente sperimentati. Il titolo, un termine medico che indica il respiro fisiologico, che potrebbe essere emblematico in epoca pandemica, si riferisce in realtà alla nascita della piccola Jessie, figlioletta di Jon Courtney, nata pretermine e di piccolo peso, e alla sua lotta per la sopravvivenza. Questo tema domina le sei canzoni dell’album e vi spiega le emozioni che scaturiscono dall’ascolto, talvolta intrise di dolcezza e altre volte intensamente drammatiche. Una produzione accurata, con suoni ben limati e una costante attenzione alla melodia e a forme musicali semplici ma di grande impatto, rendono questo album estremamente affabile e scorrevole. “New Obsession” si apre proprio con il suono del battito cardiaco e dei macchinari per il monitoraggio delle funzioni vitali, portandoci nel cuore del concept. I sentimenti sono misti di angoscia e speranza e la delicatezza delle parti corali è un catalizzatore di emozioni. La struttura del brano è lineare e incalzante, con sonorità spaziali sullo sfondo, una chitarra ritmica ben presente e la batteria che scandisce con sicurezza il percorso. “Silent Genesis”, un brano di circa 10 minuti, è il primo singolo estratto dall’album. Si tratta di un pezzo di grande atmosfera, forse il migliore del lotto, con riferimenti molto forti ai Pink Floyd, soprattutto quando entra in gioco la chitarra limpida di Gregory, e ai Porcupine Tree. Al cantato scorrevole vengono talvolta contrapposti riff pesanti di chitarra a creare contrasti netti, anche se a prevalere sono comunque le ambientazioni soft non prive di ammiccamenti poppish. “Maelstrom”, una ballad sofisticata ed ovattata con vaghe inflessioni soft jazz, si riferisce al punto di svolta nella vita di Jessie che finalmente può respirare in autonomia. In “Ghosts and Typhoons” si contrappone una prima fase eterea, e ancora una volta centrata sulle voci del duo, a una sequenza centrale dove i suoni si appesantiscono generando contrasti che ricordano molto le soluzioni degli esordi. Orchestrazioni profonde ed ampie emergono sullo sfondo mentre in primo piano rumoreggiano le chitarre che seguono un pattern ritmico ben scolpito ma movimentato ed il risultato è insieme semplice, potente e suggestivo. Dopo una breve e tenera “Beyond Our Bodies” arriva infine la title track, la più lunga dell’album con i suoi 13 minuti. L’incipit, affidato alle sole voci con una base molto soft di tastiere, come a voler sottolineare ancora una volta che queste rappresentano l’aspetto più caratterizzante del gruppo, prelude a un brano Floydiano in cui talvolta imperversano i riff distorti e pesanti della chitarra elettrica. Questi comunque non spostano molto il baricentro di un’opera che nel complesso è affabile e digeribile ma vengono più che altro utilizzati per creare contrasti e dare una sensazione che è al tempo stesso di grande potenza e di fragilità. Non so se si possa definire in tutta sincerità come un grande ritorno ma sicuramente è stato graditissimo e ci ha lasciato qualcosa di significativo sul piano delle emozioni e di piacevole all’ascolto. Diciamo che il duo ha saputo dare il giusto risalto ai propri punti di forza, senza esagerare e senza tirare troppo la corda, preferendo un approccio un po’ ruffiano, se vogliamo, attingendo al meglio del proprio repertorio passato per creare qualcosa di nuovo a partire da soluzioni già rodate.
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Jessica Attene
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