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ALTARE THOTEMICO Selfie ergo sum Ma.Ra.Cash Records 2020 ITA

Non è mai facile recensire un album degli Altare Thotemico. Questo perché la creatura del cantante e compositore Gianni Venturi, qui giunta alla terza fatica, è sempre stata incentrata su un lavoro filosofico di ricerca, da traslare poi sul piano sociale. Da qui si evince che la Filosofia stessa è madre di tutte le scienze e che va applicata ai vari campi dell’esistenza umana, dimostrandosi molto più concreta di quanto comunemente si possa pensare (senza confonderla quindi con la mera sofistica). Partendo da questo presupposto, la disamina esistenziale (per definizione dello stesso Venturi) in tale contesto risulta “politicamente scorretta” e la denuncia viene declamata sfruttando la musica come flusso su cui far scorrere parole di attacco frontale, magari forzando anche gli schemi espressivi e approdando spesso ad uno… spigoloso sentire.
Questo progetto aveva già dato alla luce due ottimi album, in cui – da un punto di vista prettamente strumentale – la ricerca guardava senza mezzi termini al jazz-rock, reso anticonvenzionale proprio dal rabbioso approccio recitativo del leader dietro al microfono. L’incontro con l’allora diciassettenne tastierista Leonardo Caligiuri aveva fatto nascere qualcosa di davvero interessante e atipico, tanto che qualche paragone con gli Area – soprattutto nel voler andare oltre, anche a discapito del semplice ascolto – non era affatto azzardato. E dopo cinque anni di silenzio, ecco la sorpresa: l’organico è stato totalmente rinnovato. Già in passato i nostri avevano registrato significativi cambi di formazione, ma stavolta anche Caligiuri ha preso altre strade, tanto che (a parte Gianni) è presente il solo sassofonista Emiliano Vernizzi, per di più come ospite. Pertanto, alle tastiere siede oggi Marika Pontegavelli, che si destreggia anche alla voce, come contraltare del ricercatore Venturi. La sezione ritmica è formata da Giorgio Santisi (basso) e Filippo Lambertucci (batteria), mentre il chitarrista Agostino Raimo si pone all’attenzione come uno dei principali protagonisti di questo nuovo album.
Un lavoro che vuole essere provocatorio ed irridente dei costumi attuali fin dal titolo e dall’artwork di Gigi Cavalli Cocchi, intraprendendo una strada musicale stavolta totalmente diversa, con solo qualche sprazzo della vecchia vocazione jazz. Lo stile è molto più duro, a tratti psichedelico, ma non si esagera se si dice che alcuni passaggi ricordano certi attimi ricreati dagli Iron Maiden. L’arpeggio di chitarra che apre “Non in mio nome” (da cui è stato ricavato un video), e che poi diventa il tema portante, ne è subito un esempio. Si tratta anche di uno dei migliori episodi, in cui la musica monta lentamente e la voce recita sempre più esasperata, con studiata enfasi, descrivendo orrori di guerra perpetrati esclusivamente per profitto, che non si arrestano nemmeno di fronte le sofferenze dei bambini (soggetti che torneranno ad essere citati nell’album) e che potrebbero essere fermati se solo i soldati si rifiutassero semplicemente di obbedire. In questo caso si ha già un saggio degli interventi chitarristici di Raimo, con una distorsione che lo fa somigliare un po’ a Bari Watts. Anche i nove minuti di “Schopenauer”, dedicati al pensiero del filosofo tedesco omonimo, presentano degli evidenti inserimenti maideniani, che si intervallano a un fluire molto liquido ed onirico, grazie soprattutto alla voce estraniante della Pontegavelli. La quale, dopo quattro minuti, col suo pianoforte (ricordando sonorità sfruttate dai Time Machine su “Act: Galileo” nel 1995) apre la strada a Venturi, cha a sua volta canta tristemente versi riguardanti la metafisica del divenire e le malattie dell’anima come l’invidia o la paura. E poi, nel finale, ecco di nuovo il richiamo a Steve Harris e soci, magari quelli altisonanti di “Alexander the Great”, con un assolo conclusivo e bruciante sulle sei corde. “Luce Bianca” torna a parlare dei bambini, stavolta vestiti di mare; si affronta chiaramente il dramma dei profughi e dei loro naufragi. Anche questo è uno dei momenti sicuramente migliori, grazie all’incedere della voce maschile che stavolta si mostra più malleabile nonostante il tono duro, in un certo senso quasi con una impostazione araba, ben amalgamata ai suoni della voce femminile, lasciando sapientemente spazio alle percussioni e soprattutto alla tromba dell’ospite Matteo Pontegavelli, che ricrea certe atmosfere fumose già poste in evidenza da una realtà come i Pensiero Nomade di Salvo Lazzara. Chissà cosa potrebbe venir fuori da una ipotetica collaborazione…
La title-track si dimostra ancora più strana. L’inizio è affidato ad una recitazione che appare come un mantra rancoroso accompagnato da rumori e suoni in sottofondo; poi comincia il pezzo vero e proprio, che a dire il vero ricorda qualcosa di già sentito. Il risultato è comunque buono, tra citazioni di Leopardi e denuncia di un mondo in cui vige l’apparire sull’essere. Risulta molto riuscita anche la soluzione del riff di basso che si fonde con le scale di pianoforte. Tra le altre composizioni, a saltare, “Ologramma vivo” si ritrova squarciato dalle bordate del sax e poi ricomposto dalla chitarra acustica. Bello il finale. Per quanto riguarda invece “Game Over”, il pezzo parte con un riff serrato e poi va avanti circospetto in un’atmosfera mediorientale; mentre Venturi descrive un pianeta al limite del collasso, alcuni interventi di sax e vocalizzi femminili sullo sfondo creano ancora più enfasi. Il culmine sarebbe contrassegnato da un passaggio chitarristico che riporta alla mente certe atmosfere da psichedelia “subacquea” sfruttate dai Vespero. Dopo, però, si ha la sensazione che la traccia si adagi su se stessa, conclusa con quel sassofono di cui ci sarebbe stato maggiormente bisogno. “Madre Terra” espone frasi sulla particella di Dio e l’entropia; dopo un assolo di blues trasfigurato, l’atmosfera si rilassa, cantando così della Terra avvolgente e di amori quantici. “Bianco Orso”, il cui inizio non sembrava affatto convincente, si evolve positivamente in un buon duetto tra le voci che cantano di rosari, ipocriti e sepolcri imbiancati, chiudendo con la distorsione chitarristica ben innestata su una impostazione fino a quel momento pianistica.
L’album finisce con “Poesia crepuscolare”, che riprende la vecchia passione jazz; Gianni e Marika cantano con pacatezza della follia appesa a un filo (anche il termine “sottile” ritorna spesso in questo lavoro…), per una ballata intimista impreziosita nuovamente da Pontegavelli con la sua tromba, oltre che dall’immancabile pianoforte. Si arriva così al termine di un lavoro che parte decisamente nervoso e si conclude con toni nettamente più rilassati e notturni, nonostante le tematiche non siano mai disimpegnate. Ad un primo ascolto, il ritorno dell’Altare potrebbe lasciare indifferenti. Sarebbe errato, perché invece occorre fermarsi ad ascoltare più volte. Magari poi lo si troverà indigesto, ma di sicuro susciterà delle emozioni, positive o negative che siano. E soprattutto farà pensare. Sotto questo profilo, Venturi e i nuovi soci hanno portato a casa il risultato, nonostante le primissime impressioni. Ma anche l’aspetto musicale andrà poi valutato con attenzione dall’ascoltatore, scovando man mano nuovi elementi da focalizzare.



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Michele Merenda

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