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MANDOKI SOULMATES Living in the gap / Hungarian pictures Sony Music / Red Rock Productions 2019 UNG

Leslie Mandoki, classe 1953, è un batterista e cantante ungherese che ha attraversato intensamente diversi decenni. Nei seventies ha provato a portare avanti un discorso jazz-rock nel suo paese, ma viste le difficoltà che incontrava non solo in campo artistico fuggì clandestinamente nel 1975 rifugiandosi nella Germania Ovest. Oltrepassato il confine, quando gli fu chiesto cosa avrebbe voluto fare, rispose con decisione: “Sono venuto qui per suonare con i miei idoli musicali: Ian Anderson dei Jethro Tull, Jack Bruce dei Cream e Al Di Meola”. Non andremo ad esaminare dettagliatamente la carriera di Mandoki, che giunse anche ad una certa notorietà con i Dschingis Khan, ma ricordiamo che i suoi propositi vennero raggiunti con la fondazione del progetto Mandoki Soulmates nel 1992. Si tratta di una sorta di ensemble aperto, a cui collaborano e hanno collaborato musicisti e cantanti di prim’ordine, a partire proprio da quei tre idoli appena citati.
Con un balzo temporale arriviamo ai giorni nostri, al 2019, data dell’uscita, a distanza di dieci anni dal precedente, del nuovo album in studio dei Mandoki Soulmates, doppio, con un titolo diverso per i due dischi e che, per l’ennesima volta, vede fior fior di collaboratori tra i partecipanti. Qualche nome (citarli tutti sarebbe davvero troppo)? Oltre i cofondatori Anderson, Bruce e Di Meola, ecco per voi Chris Thompson, Bobby Kimball, Mike Stern, Simon Phillips, John Helliwell, Randy Brecker, Bill Evans, Cory Henry… Certo, non sempre una parata di stelle è garanzia di qualità, ma Leslie Mandoki dirige le cose alla perfezione e i risultati sono soddisfacenti. Tra l’altro questo lavoro è un concept molto sentito dall’autore, che affronta delicati temi socio-politici, partendo dall’idea di come nella società moderna si stia perdendo sempre più di vista la “diversità”, intesa come punto di forza e di arricchimento, e di come si assista sempre più ad una spersonalizzazione del singolo individuo.
Il primo dischetto, “Living in the gap”, contiene tredici brani indirizzati prevalentemente verso un rock di classe e, ovviamente, suonato in maniera divina. Si alternano pezzi che rimandano ai Toto più radiofonici, elettrizzanti cavalcate funky, ballate raffinate, deviazioni blues e jazz-rock. Non mancano, anche se non sempre sono in evidenza, i cenni al prog, con il più evidente rappresentato da “Mother Europe”, con interventi al flauto e alla voce da parte di Ian Anderson, cosa che inevitabilmente fa venire in mente i Jethro Tull. Gli umori e le sensazioni variano a seconda delle composizioni e di chi le esegue, ma nel complesso questi primi sessantasei minuti passano con una certa piacevolezza. Certo, nulla che faccia strappare i capelli, siamo sempre di fronte ad un rock abbastanza classico, che non brilla di sicuro di originalità, ma che è ben eseguito e gradevole all’ascolto.
Il discorso si fa più interessante con il secondo cd, denominato “Hungarian pictures”. Siamo di fronte, in pratica, ad una suite di tre quarti d’ora suddivisa in sette tracce e che prende spunto dalla rielaborazione di temi del grande compositore Bela Bartok. L’indirizzo, quindi, è nettamente verso un progressive rock di matrice classicheggiante, distante tuttavia da quello bombastico, visto che si punta maggiormente sulla raffinatezza, sulle derivazioni della tradizione mitteleuropea, su uno spirito di ricerca più particolare. L’idea nasce da una vecchia chiacchierata che Mandoki ebbe con Greg Lake e Jon Lord e che solo oggi è andata in porto, purtroppo dopo la morte dei due colleghi. In “Hungarian pictures” si va da sequenze di pianoforte a momenti di insieme con sapori folk-prog, da slanci tastieristici a delicatezze acustiche, da pieni tipicamente classicheggianti a sonorità più sperimentali da chamber rock, da melodie di alta scuola a passaggi di non facile ascolto. Avvertibile persino qualche spunto non così distante dagli After Crying, in particolare in “Barbaro”. Il momento clou è rappresentato dalla traccia “Transylvanian dances”, diciannove minuti deliziosi che partono come una vera danza e che hanno imprevedibili sviluppi, tra spunti jazzistici, cambi di atmosfera che portano a momenti intrisi di malinconia, canti etnici, un momento molto intimista con la chitarra acustica, tradizione ed avanguardia che si alternano e vanno a braccetto. La traccia conclusiva “The torch”, invece, è un’intensa ballata rock.
Tirando le somme, questo lavoro del progetto Mandoki Soulmates mostra un artista che con i suoi numerosi, celebri e celebrati collaboratori, nonostante la tantissima esperienza accumulata, ha voluto fare le cose in grande. La musica contenuta nei due cd è di buon livello, è stata realizzata con tutte le cure del caso e fa venire la curiosità di approfondire anche con le pubblicazioni passate. Segnaliamo, infine, la disponibilità di una versione deluxe, con l’accompagnamento di due libri lussuosi contenenti informazioni, testimonianze e immagini di altissima qualità.



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Peppe Di Spirito

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