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OVRFWRD |
StarStuff |
Rock Slacks Music |
2020 |
USA |
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Il nome che questa band di Minneapolis si è scelto non è un codice fiscale ma ovviamente la contrazione di “overforward”; avevo avuto modo di ascoltare un paio dei loro tre precedenti album ma, ad essere sincero, non mi avevano particolarmente impressionato, pur non essendo in assoluto da disprezzare. Un Prog energico ed interamente strumentale, con riflessi jazz-rock e costruito sul continuo rincorrersi tra le tastiere (tra le quali spiccano ovviamente dei bei pezzi vintage) di Chris Malmgren e le chitarre di Mark Ilaug, ottimamente sostenute dalla possente ed efficace ritmica di Kyle Lund (basso) e Richard Davenport (batteria). I quattro sono riusciti a rimanere uniti negli anni, senza avvicendamenti, e questo non ha fatto che accrescere l’affiatamento tra di loro; il ritmo con cui hanno realizzato i loro quattro album è decisamente apprezzabile, risalendo l’esordio solo al 2014. In questo nuovo lavoro i nostri si avvalgono peraltro, per la prima volta, anche della collaborazione di musicisti esterni, nelle persone di Bryan Hanna (congas) e di Paula Gudmundson (flauto). Come si sarà intuito, se gli album precedenti (quanto avevo ascoltato, ovviamente) non mi avevano impressionato, questo “StarStuff” (registrato in soli 5 giorni) invece è riuscito a prendermi fin da subito. Forse anche per la presenza proprio del flauto che riesce ad arricchire in modo vistoso il sound una traccia come “Let it Burn (King George)”, la seconda delle sette totali, apportando una nota di dolcezza che non può non riportarci ai migliori Camel, pur rimanendo il contesto sonoro di contorno comunque molto energico e gagliardo. Questa contrapposizione risulta alla fine decisamente efficace ed il brano citato rimane uno dei miei preferiti. Non che comunque la traccia di avvio (“Firelight”) fosse proprio da disdegnare, con un organo ruggente che ci accoglie in maniera aggressiva ma affabile in un brano che si situa tra Deep Purple, King Crimson (“Red”) ed EL&P. La title track, che segue dappresso questa scoppiettante coppiola d’avvio, cambia nuovamente l’umore generale della musica, trasportandoci in lande malinconiche attraverso suoni decisamente più ovattati e cauti. Le evidenti ascendenze scandinave di una buona metà della band si fanno evidentemente sentire e il brano si sviluppa su un tappeto di Mellotron su cui vengono create atmosfere psichedeliche, brumose ed autunnali. L’avvio di “Look up”, il brano più lungo del lotto (poco più di 8 minuti), torna a far muggire chitarra e tastiere, salvo poi tramutarsi in un brano sbilanciato sul versante fusion, senza particolari sussulti; piacevole, senza dubbio, ma di sicuro non il mio brano favorito. Meglio allora la successiva, brevissima, “Daybreak”, un delizioso brano jazzato per solo pianoforte. In “Zathras” invece è la chitarra che svolge il ruolo di protagonista, seppur accompagnata in modo discreto dagli altri strumenti; buon brano, con un bello sviluppo in crescendo. Siamo arrivati alla conclusione, affidata al pezzo “From Parts Unknown”, altro brano cui non si può certo imputare nulla di veramente negativo ma che tuttavia non riesce ad elevarsi particolarmente, ricordandoci ancora del perché gli album precedenti della band non mi avessero impressionato. A conti fatti si tratta di un buon album, seppur non ottimo, contenente alcuni episodi decisamente attraenti ma che più di una volta scivola in direzione di un’aurea mediocrità.
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Alberto Nucci
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