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STARING INTO NOTHING |
Love |
Antares Group |
2020 |
USA |
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Dietro la sigla “Staring Into Nothing” si nascondono due compositori californiani invaghiti del progressive rock, Steve Rogers (tastiere e voce) e Kurt Barabas (basso, pedaliera Moog Taurus, chitarra e cori), quest’ultimo già nei ranghi degli Under the Sun, band prog-metal affiliata alla scuderia Magna Carta che pubblicò un album circa vent’anni orsono e più recentemente degli Amaran’s Plight assieme a Nick D’Virgilio e Gary Wehrkamp. L’esordio, intitolato “Power” (2017) costituiva apparentemente il primo episodio di una trilogia basata sui sentimenti umani, di cui il presente “Love” costituisce il secondo tassello, in vista del conclusivo “Fear” già in fase di preparazione. Come svelato sin troppo palesemente dal titolo, le liriche dell’album analizzano la molteplicità e l’evoluzione dell’amore romantico, adagiate su ciò che gli autori definiscono “una base melodica di progressive rock unita all’esplorazione di nuovi territori armonici e tematici”. L’album è stato prodotto e mixato da Ronan Chris Murphy (Bozzio/Levin/Stevens, Ulver) che grazie alla sua esperienza di gestione dello studio Veneto West ha potuto assicurare al fortunato duo i servigi di una serie di quotati collaboratori tra cui Gregg Bissonette alla batteria, Mike Keneally alla chitarra, Trey Gunn alla Warr guitar e Danny T. Levin ai fiati, adottando, sempre nelle loro parole, “un approccio alla creazione musicale sullo stile degli Steely Dan, usando lo studio e un cast che a rotazione vede collaboratori di livello mondiale per creare musica che osserva e scruta l’esperienza umana.” Tale sfarzoso sfoggio di virtuosi farebbe presagire una proposta elaborata e tecnica, mentre già dal brano d’apertura, “Winter”, parte di un’ideale sequenza di brani che fanno riferimento alle stagioni, ci troviamo di fonte ad una soffusa e malinconica ballata romantica in pieno stile pop-rock melodico, un modo forse non troppo accattivante per aprire il disco, seguita dalla più spensierata “Spring”, con la sua batteria sincopata; la voce di Rogers è appena sussurrata e un po’ monocorde, a volte sorretta da cori o vocalizzi femminili: qualche similitudine può essere tentata con i Pendragon più rarefatti, ma la struttura dei brani resta molto più semplice rispetto alle creazioni di Nick Barrett. Una novità gradita la apprezziamo già in “Summer”: l’impiego della tromba solista e di una sezione fiati che aggiunge colore ove necessario a questo brano solare e a molti altri a venire. La chitarra (di Keneally?) iniziamo ad apprezzarla realmente solo in “Winter”, ma le uscite solistiche sono centellinate, i cliché del progressive rock non sono qui di casa. Il resto del lavoro conferma quanto ascoltato sin qui, con poche sorprese, tra cui gli archi che aprono “The thin line”, la costante presenza di un gioioso piano elettrico in odor di Supertramp, qualche sparuto sussulto strumentale come il bel solo di chitarra elettrica su “Ashes” (pubblicata anche come singolo), la chitarra slide e il lavoro della sezione ritmica su “Beautiful delusion”, episodio questo che si rivela il più interessante e articolato, anche se siamo dalle parti dei DBA di Geoff Downes piuttosto che degli Asia; qualche timido guizzo dei synth (“The ties that bind”) e timide escursioni beatlesiane (“Find our way back”). Infine, “Amazing grace” non è la loro versione del classico inno religioso inglese, ma un sommesso commiato in pigra andatura floydiana, che celebra forse la sublimazione di una relazione ormai conclusa in un sentimento differente, con il violino di Jeff Gauthier a sottolinearne la carica emotiva. Preso per ciò che in realtà contiene, l’album non delude, pur con qualche riserva rappresentata da una certa mancanza di verve dell’interpretazione vocale e l’uniformità dell’andatura e della struttura (brani brevi che si sviluppano adagio e si concludono senza “esplodere”); si tratta comunque di un album di pop-rock raffinato con chiare contaminazioni prog - qualcuno lo chiamerebbe art-rock – che può costituire una valida alternativa per un ascolto non troppo impegnato; volendo proprio cercare dei riferimenti nel passato, oltre ai nomi già citati, lo accosterei per certi versi ai lavori dell’Alan Parsons Project, dei Camel di “The single factor” o a qualcosa degli ELO.
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Mauro Ranchicchio
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