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BREIDABLIK Omicron Pancromatic 2020 NOR

Nell’ambito della mitologia norrena, Breidablik è la dimora di Baldr, figlio secondogenito di Odino e divinità della benevolenza; sotto lo stesso nome si cela il progetto del polistrumentista norvegese Morten Birkeland Nielsen, autore di una serie di album ed EP pubblicati dal 2012 ad oggi sotto forma di cassette e download digitali. Fortunatamente, un meritato contratto con l’etichetta specializzata Pancromatic ha permesso ad alcuni di questi lavori di raggiungere un’audience più vasta, tramite ristampe in vinile (comunque a tiratura limitata) e addirittura CD, come l’album che andiamo ad analizzare. L’output musicale dei Breidablik è fermamente radicato nella cosiddetta “scuola di Berlino di musica elettronica” (qui ironicamente ribattezzata “scuola di Bergen”), ma trova anche ispirazione nei soundscape ambientali e in un certo filone di colonne sonore, come quelle del compositore tedesco Michael Hoenig, loro nume tutelare, della cui celebre citazione viene fatto tesoro: “La ripetizione è l’immagine dell’eternità in musica”.
In questo che può considerarsi il quarto album di durata completa (dopo “Vinter”, dedicato alla memoria di Edgar Froese e “Penumbra”, entrambi del 2017 e “Nhoohr” del 2019), il nostro Morten decide di accogliere nel progetto l’amico Håkon Oftung, leader dei lanciatissimi Jordsjø, realtà ormai di spicco del progressive rock sinfonico (nonché membro, sotto nome di fantasia, degli apprezzati Elds Mark), con cui già condivise anni fa le due facciate dello split tape “Songs from the Northern Wasteland”.     
Questo non deve far credere che i Breidablik si siano convertiti in toto al filone sinfonico, ma certo è che il contributo di Håkon (flauto e chitarra elettrica), ancorché spesso discreto, aggiunga una graditissima dose di organicità e di eterogeneità ad una proposta che rischierebbe di tenere a distanza potenziali fruitori per via di una sua intrinseca algidità di fondo. Tutto il resto della trama sonora è opera di Morten, che oltre alla programmazione della batteria elettronica (come vedremo, usata con parsimonia) e a qualche intervento di chitarra acustica, dà sfoggio del suo arsenale di sintetizzatori, dagli analogici monofonici, duofonici e polifonici (virtuali o meno) fino ai sequencer e alle “app” software. Come accadeva negli anni ’70 con molti dei capolavori di Tangerine Dream, Mike Oldfield, Vangelis e Klaus Schulze, l’album è composto di due suite di circa venti minuti, ciascuna a coprire una facciata del disco, quasi una divisione fittizia imposta dal medium fisico.
La prima parte si apre con un arpeggio di chitarra classica, quasi un’overture “terrena” che lascia presto spazio alle suggestioni cosmiche che ci delizieranno per gran parte del viaggio: la chitarra elettrica interviene sporadicamente per evidenziare la profondità delle trame intessute dai synth e dall’organo di Morten grazie a efficaci sottolineature che sfruttano il pedale del volume. Una volta raggiunta la velocità di crociera, ci ritroviamo in pieno territorio “Phaedra” o “Rubycon”, ormai disposti a perdere anche la cognizione del tempo grazie all’effetto ipnotico della reiterazione di temi e pattern sonori, con le provvidenziali sferzate di Oftung a riportarci occasionalmente con i piedi per terra. Una serie di esplosioni (tuoni?) introduce una sezione dal sapore quasi liturgico, ed i Pink Floyd di “A saucerful of secrets” o “Ummagumma” fanno capolino, un paragone che è quasi un retrogusto di familiarità e certo non va ad inficiare il giudizio sull’originalità della musica. La prima suite si avvia verso la conclusione con l’ingresso della drum machine, forse leggermente invadente, che puntella i beat di un synth arpeggiato: se avevate intenzione di ballare, si tratta dell’unica occasione per farlo(!), dato che il cerchio si chiude con una sezione ambient e la ripresa del tema di chitarra classica.
“Omicron pt.II” si apre con un fraseggio melodico di chitarra elettrica e con il flauto, finendo per somigliare ad una versione dilatata e siderale degli Jordsjø, ma presto un gorgoglio ci rammenta che siamo in rotta per le galassie piuttosto che per le foreste scandinave; in ogni caso la giustapposizione non stride, al contrario, conferisce un carattere impressionistico ed è una delle carte vincenti di questo lavoro a quattro mani ed una strada che mi auguro sia percorsa anche in futuro dal duo. La parte centrale della suite accosta un pattern di sequenze ad interiezioni di chitarra, con un synth solista dalla timbrica solenne, cosa che di nuovo ci riporta a Gilmour e soci, in particolare la sezione free form di “Echoes”: il tutto è costruito ammirevolmente ed emana un fascino innegabile, tale che il ritorno della chitarra classica ad annunciare la fine del lavoro ci lascia con la voglia di ascoltarne ancora.
Un album di musica elettronica “classica”, con suoni vintage, ma non un mero clone delle storiche band teutoniche: l’influsso scandinavo è sottile ma presente, per cui il lavoro può risultare assai appetibile anche da chi, come il sottoscritto, vi si accosti per cercarne suggestioni sinfoniche. Questa recensione si riferisce alla versione in LP; segnalo però che la versione in CD aggiunge due bonus, ovvero la versione rimasterizzata delle tracce “Penumbra pt.I & II” dall’album omonimo.



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Mauro Ranchicchio

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