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RING VAN MÖBIUS The 3rd Majesty Apollon Records 2020 NOR

La schiera degli estimatori di un certo modo alquanto retrò di intendere il rock sinfonico, salutarono con entusiasmo nel 2018 l’esordio “Past the evening sun” dei Ring Van Möbius, trio norvegese la cui estetica li fa sembrare viaggiatori nel tempo provenienti dal 1971 o giù di lì.
Personalmente, potendomi annoverare tra questi, attendevo con impazienza il ritorno di questa band piuttosto eccentrica il cui suono – l’avrete capito dalla configurazione – è basato sulle molteplici timbriche delle tastiere di Thor Erik Helgesen (pianoforte, organo Hammond, Spectral Modular Synthesis System, Clavinet, piano elettrico Fender Rhodes, voce e compositore principale) che può contare su una sezione ritmica agile e dinamica, anch’essa dall’impostazione squisitamente vintage (Håvard Rasmussen: basso, Theremin, Ring Modulator; Dag Olav Husås: batteria, percussioni). Possiamo leggere nel booklet, affermato con un tocco di sottile ironia, che sono state usate “esclusivamente apparecchiature analogiche e tecniche antiche” e di ciò ci rallegriamo.
Lo sfoggio di tale armamentario potrebbe ridursi in uno sforzo velleitario in mano ad una band che non abbia le idee chiare su come sfruttarlo ma questo non è certo il caso della band dell’isola di Karmøy, che ha già ampiamente dimostrato di aver assimilato la lezione di Egg, Emerson Lake & Palmer, The Nice e Van der Graaf Generator. Il nuovo lavoro è strutturato in modo da riflettere la divisione dei brani nelle due facciate di un LP (e infatti tale edizione esiste eccome, come ormai è consuetudine), con la suite dal pomposo titolo “The seven movements of the Third Majesty” a dominare il lato A e tre brani più brevi (si fa per dire, due di essi sfiorano o superano i 10 minuti…) ad occupare il rovescio del padellone.
Senza troppi preamboli, il primo dei sette movimenti (“Universal”) ci introduce immediatamente in un paradiso sinfonico, e qui è il fantasma degli Egg di Dave Stewart ad imporre la propria ingombrante presenza, con l’organo che scandisce i riff all’unisono con una batteria quasi marziale; altrove (“Spectrum”, “Strife of the icons”), complice anche l’interpretazione vocale ruvida ma intensa di Helgesen, è la band di Peter Hammill ad essere evocata (in particolare la geniale schizofrenia sonora di “Pawn hearts”) anche se questa somiglianza, in confronto al debutto, risulta piuttosto smorzata, complice anche l’assenza del sax e l’attitudine organistica molto distante da quella di Banton. L’organo frenetico e il synth ululante di “Reaction” spostano il focus sullo stile di Emerson, omaggio ribadito dal quarto movimento, “Bilateral”, che riecheggia la sezione “Stones of years” da Tarkus. Il trionfalistico finale (“Altitiude over azimuth”) è quanto di più pomposo si possa immaginare, con tanto di campane e timpani, degna conclusione di una suite sopra le righe.
Proseguendo nell’ascolto, “Illuminati” vede protagonista il Fender Rhodes e il Clavinet, risultando a tratti vagamente funky, ma le ritmiche spezzate, con la batteria che insegue le fughe dello Hammond riportano prepotentemente sui binari del sinfonico più canonico; alcune soluzioni corali, abbinate alle giocose evoluzioni del piano elettrico paiono piuttosto un velato omaggio ai Gentle Giant.
“Distant sphere” si apre con una sezione cameristica, quando la voce (stavolta sommessa) di Helgesen prende la scena, troviamo qualche sprazzo di affinità con il debutto “Gothic impressions” del Pär Lindh Project, altro ensemble che fece dei barocchismi la propria bandiera; essendo però meno inclini alle contaminazioni classiche rispetto all’organista svedese, quando il quartetto d’archi infine tace, i nostri trasformano il brano in una festa per tasti d’avorio, quasi un’ostentazione di tutti gli strumenti e gli effetti a disposizione, con delle parentesi astratte e psichedeliche che ancora rievocano la band di “The polite force”, nonché un altro finale strumentale epico da pelle d’oca. La fantasia della sezione ritmica risulta in molti frangenti l’arma in più del trio, con il torrenziale Husås ad elargire cascate di virtuosismi percussionistici.
Il basso aggressivo e sferragliante di Rasmussen introduce infine il brano manifesto “The Möbius ring”, i cui versi declamati si adagiano su uno Hammond a briglie sciolte, con la batteria costantemente a duellare proponendo fill e controtempi a profusione. Una gustosa uscita solista di synth, poi protagonista nel finale, ci permette di apprezzare appieno il “mostruoso” sistema modulare utilizzato da Helgesen.
Siamo di fronte, a mio avviso, di uno degli album più riusciti dell’anno - che segna un netto miglioramento anche rispetto al già ottimo esordio - al quale non riesco a trovare difetti se non la sfacciata derivatività, qualità che personalmente non ne svilisce affatto la godibilità, ma che potrebbe indurre qualcun altro a storcere un po’ il naso. Fate voi… intanto credo che me lo riascolterò da capo.



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Mauro Ranchicchio

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