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IL PARADISO DEGLI ORCHI |
Samir |
AMS Records |
2020 |
ITA |
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Il progressive rock del Paradiso degli Orchi si conferma molto rock. La proposta della band, fin dagli esordi, è stata un po’ sui generis, presentando molte delle caratteristiche del nostro amato prog, ma offrendo anche contaminazioni poco convenzionali e mostrando uno spirito sanguigno ed aggressivo che dà una carica di adrenalina non indifferente. Ed ecco che la terza prova in studio fa riemergere quanto avevamo già ascoltato nell’omonimo debutto e ne “Il corponauta”. Chitarre graffianti che partono dall’hard rock e dalla psichedelia dei seventies e dalla “totalità” di Frank Zappa per approdare all’indie-rock e al metal degli anni ’90; composizioni imprevedibili con strutture elaborate, che vanno in mille direzioni, ma curate in ogni dettaglio; ritmi serrati, stravaganti e pronti a cambiare come nella migliore tradizione prog; un’anima (qualcuno direbbe “attitudine”) prog che vien fuori in continuazione con la voglia di andare oltre le “forme” e le “sostanze” più comuni. È tutto questo che continuano a portare avanti i sei musicisti del Paradiso degli Orchi. Stavolta alla base c’è la narrazione di una storia curiosa, quella di Samir, un corriere libanese molto loquace, conosciuto in un singolare pub in Canada e che è pronto a intrattenere con racconti di vita vissuta e divagazioni verso ogni argomento possibile. Dai saliscendi di “Introinduizione” (vera e propria presentazione del disco), frenetica, ma con meravigliose aperture delicate di flauto e tastiere, si passa a “Slowgun”, uno stranissimo connubio di moderna psichedelia, atmosfere mediorientali ed echi di Elio e le Storie Tese, per poi indirizzarsi verso la title-track< che, inizialmente teatrale e recitata, si spinge poi verso nuovi sapori esotici, world music, bizzarre melodie, un sound che può portare alla mente certo prog spagnolo (Medina Azahara e Fusioon), in uno scenario che si mantiene comunque coeso e che si sviluppa con naturalezza e fascino. E se gli undici minuti di “Mente” viaggiano sferzanti, attraverso un alternative rock che ripesca soluzioni care ai Faith No More, ma portate avanti con la personalità che contraddistingue il gruppo, la conclusiva “Ali di gabbiano”, offre un tocco più melodico, con un rock italiano intrigante, ben cantato (come nel resto dell’album), con un inaspettato e sorprendente assolo floydiano/gilmouriano e senza rinunciare ai timbri del flauto e quelli più particolari delle tastiere. Se cercate i suoni sicuri e consolidati del rock sinfonico la musica del Paradiso degli Orchi non è certo adatta a voi. Ma se vi piacciono soluzioni più ricercate, la voglia di far sentire la propria voce in maniera originale e i viaggi sonori avventurosi, questi quaranta minuti elettrizzanti confermano tutto ciò che di buono avevamo già detto su questo gruppo.
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Peppe Di Spirito
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