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BLACKSMITH TALES The dark presence Immaginifica 2021 ITA

Le fondamenta di questo debutto vengono gettate negli anni ’90, cioè quando il pianista e compositore Davide Del Fabbro scrive buona parte dei brani qui presentati. A influenzare la stesura vi è sicuramente la militanza in band che coverizzano nomi del calibro di Rush, Genesis, Pink Floyd, Kansas e Gentle Giant, passando quindi per una vera e propria summa del glorioso rock progressivo in varie delle sue molteplici sfaccettature e, soprattutto, addentrandosi nelle esecuzioni altamente tecniche delle compagini poco sopra citate. Dopo l’evento della paternità, l’autore decide finalmente di realizzare ufficialmente quanto ideato anni prima; un progetto che si concretizza grazie all’incontro con l’altro tastierista nonché produttore Luca Zanon, musicista con molte collaborazioni alle spalle (Virtual Symmetry, Temperance, Federica Carta, ecc…), che peraltro crea il nome del gruppo grazie ad un simpatico gioco di parole: “blacksmith”, infatti, significa “fabbro” e quindi “Blacksmith Tales” indica per l’appunto “Le storie Del Fabbro”, come il relativo autore.
Questa prima uscita viene portata avanti sotto forma di concept, in cui viene descritta un’anima che vive arroccata nel proprio castello, una specie di “torre d’avorio”, all’interno di una dimensione ancora del tutto atemporale. Da lì, viene attratta da un’altra figura che le sorride e riesce ad afferrarla… Comincerà un lungo viaggio di crescita, che durerà dal periodo dell’antico Egitto fino a quello medievale, in cui occorrerà scendere negli abissi più oscuri di quest’anima, scoprire e riconoscere la propria negatività, per poi finalmente abbracciare quella che è la parte più luminosa e quindi tornare al punto di partenza totalmente consapevoli di se stessi. Assieme ai due tastieristi si registra la presenza del cantante Michele Guaitoli (Era, Visions of Atlantis, Temperance), dell’altra vocalist Batrice Demori (autrice anche dell’artwork), il chitarrista Marco Falanga (Crystal Skull, Hanger Theory e Sacro Ordine, tra gli altri), il batterista Stefano Debiasio e il bassista Denis Canciani (nella formazione di Alice). Sette musicisti che creano una miscela di neo-prog dai fortissimi spunti sinfonici, che per raggiungere certe evocazioni non disdegna puntate decise verso le durezze ed i tecnicismi del prog-metal. Per quanto detto prima, la title-track di undici minuti e mezzo che apre la storia è caratterizzata da quella solennità con cui in genere si rappresentano scene ambientate proprio nella terra dei faraoni, con stacchi tra una fase e l’altra che a volte risultano però un po’ troppo netti. L’andamento generale è comunque tracciato, avvicinandosi il più possibile a quello delle colonne sonore. Assoli ad effetto posizionati in punti strategici e soprattutto strizzate d’occhio a strofe orecchiabili, che nel caso del brano preso in esame rendono al meglio nella sezione conclusiva, dopo un lungo tour de force strumentale, somigliando vagamente agli Angra più melodici. Il pianoforte è quasi sempre lo strumento portante, attorno al quale si sviluppano atmosfere ed eventuali acrobazie tecniche, esattamente come accade con la successiva “Golgotha”, che suona misteriosa ed inquietante lungo tutti i suoi sei minuti, dove le note insistono nella loro ossessività. Un pezzo che sarebbe potuto anche durare qualcosa in meno, ben inquadrato però nel concetto di colonna sonora poco sopra espresso, sulla scia dei Therion più sinfonici (anche per la commistione di latino ed inglese) ma con minori manie di grandezza. “Let Me Die” è più solare, giocata sempre sulle tastiere e nuovamente sul pianoforte, concedendo delle incursioni alla chitarra elettrica ed impegnando la sezione ritmica. Anche qui, il cantato risulta migliore nel finale più rilassato, mentre una simbolica goccia “elettronica” sull’esempio dei Pink Floyd di “Echoes” introduce il passaggio a “Rain… Of Course!”, formata da chiari riferimenti che in buona parte guardano al folk inglese ma anche ai Kansas. Traccia decisamente gradevole, la cui “ruffianeria” viene contenuta nei giusti ranghi. Più cupa e complessa risulta decisamente “Into the Sea (Apocastasis)”, dove si scende negli abissi più profondi, e anche in questo caso sarebbe stata da accorciare per una migliore fruibilità. È il passo immediatamente precedente verso la consapevolezza, che dopo la breve ed acustica “Interlude” passa per la strumentale “Tides from a Faray Shore”, anche stavolta influenzata dal folk inglese (con tanto di flauto), perfetta nei suoi due minuti e mezzo in cui capitano tante cose, tra cui il notevole assolo sulle sei corde, preludio a “The Dark Revelation”. Un brano che parte lentamente, pur non rinunciando nemmeno in questo caso alla solennità cinematografica di cui tutto l’album è pervaso, per passare a brevi momenti accelerati e passaggi tastieristici in stile vecchio prog italico, oltre all’incalzare chitarristico accompagnato da un coro che continua a proporre ambientazioni folk britanniche. Queste vengono sonoramente amplificate in “A New Sunrise”, che fin dal titolo, con la sua teatralità, tocca anche gli Uriah Heep (l’intermezzo latino altisonante inserito nella solita ambientazione egizia, però, suona come un di più). Il mistero torna a infittirsi con la breve “Chapter LXVI”, dove alcune voci si sovrappongono minacciose in ciò che di fatto è una estrapolazione tratta dal capitolo 64 del “Libro dei Morti”, approdando a quello che è il monumento di questo lavoro, cioè “Possessed by Time”, suite di oltre diciassette minuti divisa in sei movimenti. Anche qui sarebbe occorso dare una sforbiciata affinché si fosse potuta rendere sempre alta l’attenzione in quelle coordinate che risultano ormai ben consolidate, tra antichi trionfalismi orientali e folclore d’Oltremanica, tutti scanditi da un buon pianoforte, anche se le fasi prolungate servono probabilmente ad evidenziare il passaggio tra le successioni temporali. Ancora una volta, suona molto bene un pezzo breve, cioè quella “Last Hero’s Crusade” in cui l’eroe sembra aver concluso la propria battaglia nei secoli e che musicalmente attualizza quelle canzoni orecchiabili che si cominciarono a sentire alla fine degli anni ’80. “Book od Coming Forth by Day” chiude questo ipotetico libro, pronti ad aprirne eventualmente un altro prossimamente. Otto minuti e mezzo che non rinunciano ad orpelli vari, con cui si finiscono per appesantire quella che sarebbe comunque stata una degna conclusione.
Termina così un esordio dal minutaggio decisamente lungo, ben settantasei minuti divisi in tredici tracce. È risultata chiara la volontà di pubblicare una mole considerevole di materiale (chissà, magari verrà fuori che ne è stata accantonata un’altra cospicua fetta), che per buona parte ha consegnato un’opera di livello. Se si andrà avanti, però, occorrerà rendersi conto che a volte occorre non esagerare e magari rinforzare certe dinamiche sonore, come ad esempio quelle legate alla voce. Un’uscita senza dubbio abbondante ed impegnativa.



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Michele Merenda

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