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AMBIGRAM Ambigram Ma.Ra.Cash 2021 ITA

Questa sorta di supergruppo è nata sotto l’egida e con la benedizione del compianto Greg Lake, a quanto pare, annoverando tra le sue fila, tra membri effettivi del gruppo e collaboratori minori, vari musicisti dell’area Manticore come Max Marchini (basso, tra i promotori del progetto) e Annie Barbazza. Segnaliamo tra gli altri anche Francesco Rapaccioli alla voce, Gigi Gavalli Cocchi e la sua batteria, il tastierista Max Repetti e lo special guest Paolo Tofani, presente quest’ultimo su due tracce.
Il risultato di questo (estemporaneo?) connubio è abbastanza interessante; abbiamo 8 canzoni (più una versione “radio edit”), quasi tutte di media durata, in cui la complessità di alcune soluzioni non va comunque mai a discapito di una fruibilità non proprio marginale. La band ha pensato di ideare un’etichetta per la propria musica coniando, più o meno scherzosamente, il termine Pro-aggressive. A dire il vero non è che si riesca a percepire tutta questa aggressività, se non in modo molto saltuario e travalicando solo a tratti l’ideale confine dello hard Prog. Alcuni momenti più tirati e distorti non bastano di certo, a mio modo di vedere, per poter prefigurare un album che giustifichi tale etichetta, scherzosa quanto si voglia. Siamo invece alle prese con delle canzoni abbastanza godibili e ascoltabili senza grossi sforzi che comunque non scadono mai nel pop e neanche indugiano in soluzioni musicali di facile presa.
Ad ogni modo, come dicevo, il risultato è interessante e senza dubbio attraente, se non addirittura coinvolgente in certi momenti. “Pig Tree” è il brano più tirato e dai connotati più robusti del lotto, quanto meno nella sua prima parte. La potente ma melodica voce di Rapaccioli, che abbiamo già cominciato a conoscere nelle prime due canzoni, ci prende per mano e si spinge su altitudini elevate, assecondata da parti strumentali che riusciamo decisamente ad apprezzare nella loro (passatemi questo termine) complessa banalità. Non ci sono particolari evoluzioni strumentali ma le ritmiche ed i ceselli che costantemente accompagnano il dipanarsi dei brani riescono a costruire un prodotto musicale apparentemente semplice nell’ascolto ma tutt’altro che banale, se appena ci prestiamo orecchio.
Brani dai connotati più affabili e dai contorni più jazzati si alternano quindi a momenti più trascinanti, con buoni impasti strumentali anche nei brani più semplici e diretti (come “Imaginary Daughter”). L’impressione finale è quella di aver ascoltato un buon album, sicuramente ben suonato, abbastanza divertente ma che non riuscirà comunque a far breccia nei cuori degli ascoltatori duri e puri. Per chi si accontenta di una produzione gradevole, ben suonata, ripeto, ma non esattamente sorprendente.



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Alberto Nucci

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