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KALI TRIO Loom Ronin Rhythm Records 2021 SVI

Minimalismo jazz dalla Svizzera con il collettivo Kali Trio, già Kali nel loro disco d’esordio “Riot” uscito nel 2018, formati dal batterista Nicolas Stocker, il pianista e compositore Raphael Loher, ed il chitarrista Urs Müller. Registrato nel arco di una settimana in un piccolo studio sotterraneo, location ideale per un disco introverso e decisamente criptico, “Loom” si compone di quattro lunghi brani strumentali dai ritmi serrati, non facilmente inquadrabile in un ottica puramente jazz: il Kali Trio parte con un solido punto di riferimento nei The Necks, ensemble/trio australiano tra i più influenti del jazz contemporaneo, per esplorare territori musicali piuttosto ostici quanto poco ortodossi ed indecifrabili. Il processo creativo dei Kali Trio appare camaleontico nella forma quanto nella sostanza, il batterista segue oblique pulsazioni elettro-acustiche che richiamano esplicitamente le tendenze più contemporanee di certa musica elettronica (tendenzialmente downtempo, per alcuni anche le più deleterie), suonando con precisione chirurgica e metronomica parti sincopate disorientati quanto pienamente coerenti con uno spirito modernista di fusion estrema. Come i The Necks, anche il Kali Trio pone una certa attenzione nello svisceramento in profondità del suono, meno forse all’aspetto puramente “ipnotico” e trascendentale del minimalismo, in effetti il concetto e l’approccio di “Loom” è quello di un jazz suonato come musica elettronica nelle sue molteplici sfaccettature con annessi varianti rumoristiche e clangori tipici da musica industrial; in tal senso la chitarra elettrica è fonte principale di soundscapes ambientali e sonorità abrasive dall’effetto disturbante e noise, ben poco orientata ad una formula canonica di jazz… La componente più umana in “Loom” la rintracciamo nel lavoro di pianoforte, il più delle volte trattato, Raphael Loher attraverso incessanti progressioni minimali ed intermittenze sonore ci offre soluzioni melodiche sempre interessanti, con alcuni passaggi che si avvicinano al jazz spirituale coltreniano come accade nel terzo brano “Dry Soul”, oppure in raffinate aperture melodiche che evocano atmosfere da suggestiva soundtrack virtuale. Il risultato nel suo insieme è comunque difficile da decifrare, se non come una forma di post-minimalismo alienante quanto affascinante, con un approccio ossessivo/compulsivo e percussivo che in fondo non è neanche così distante da quanto messo in pratica dalle cerimonie elettroniche degli ultimi Art Zoyd: nella loro glaciale precisione chirurgica i Kali Trio ci proiettano in una dimensione ipertecnologica volutamente disumanizzata, anticipatrice di un mondo futuro in cui la creazione delle forme d’arte saranno del tutto ad esclusivo appannaggio delle intelligenze artificiali… Prospettiva inquietante ma temo non così remota!



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Giovanni Carta

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