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CITY WEEZLE N° 2 autoprod. 2020 IRL/JAP/GER

La band internazionale City Weezle torna con il secondo full-length dopo l’esordio “Taboo” datato 2010, seguito due anni dopo dall’EP “Lysergic tea party”. Fondata nel 2006 dal cantante/chitarrista Simon Fleury, prima di esordire sul mercato discografico la sigla in questione avrebbe prodotto due demo, facendosi notare tanto nella scena underground irlandese quanto in quella francese, stringendo così amicizie e successivamente collaborazioni con esponenti della medesima area musicale d’appartenenza. Tra questi va segnalato Gautierre Serre, meglio conosciuto nell’ambiente come “Igorrr”, il quale – tra le altre cose – si sarebbe occupato di missare e masterizzare anche questo ritorno sulle scene. Nel 2013 Fleury incontra e in seguito collabora col pianista CSL Parker (qui presente anche come arrangiatore e pianista nei primi tre brani), il quale a sua volta lo incoraggia per un ritorno sulle scene. Ricontattando quindi la sezione ritmica tutta nipponica formata da Kengo Mochizuki (basso) e Ai Uchida (batteria), nascono i nuovi pezzi, inserendo anche il tastierista tedesco Axel Steinbiss. Tra Francia, Irlanda e Giappone viene in alcuni anni messo a punto il ritorno discografico, assieme alla presenza in fase di realizzazione di vari ospiti. Tra questi, figura in lista anche il chitarrista francese Pierre Schmidt, che nelle note inviate dalla band viene incluso nella line-up vera e propria. Cosa che però non accade in quelle di copertina, dove Schmidt è stato indicato genericamente alla chitarra in cinque pezzi su otto.
Lo stile è molto eclettico e volutamente dissacratorio per risultare disturbante, fin dalla copertina che rappresenta qualcosa di tanto subdolo quanto repellente. I riferimenti (rumoristici) vanno individuati in Faith No More e Mr. Bungle, quindi ben lontani dalla classica idea di prog-rock. È comunque innegabile la presenza di elementi Zappiani e di altri riconducibili ai King Crimson. A proposito di quest’ultimi, è sicuramente il caso di parlare di quella che probabilmente risulta la composizione migliore di quest’album, cioè la strumentale “Crimson Jig”. Nove minuti che si aprono con una chitarra acustica che macina prima riff e poi note soliste nello stile che potrebbe rifarsi a quello di Frank Zappa nel suo “Sleep dirt” (1979), applicato però su un andamento ritmico tanto tribale quanto complesso, grazie anche alle ulteriori percussioni di Gael Leprince Caetano. Tutto questo, in effetti, ad un certo punto ricorda con i suoi incastri le trovate di Robert Fripp, poi rafforzate anche dall’inserimento della chitarra elettrica che apporta maggiore durezza. Bello l’ingresso dopo tre minuti delle tastiere, con un fare scorrevole che sembra riprodurre calma follia in un ambiente tendenzialmente caotico. C’è poi un passaggio repentino verso la quiete, sempre però molto tesa, dove si possono apprezzare ancora meglio le percussioni. L’atmosfera vuole essere chiaramente esotica, ben ricreata grazie agli interventi chitarristici, in cui dovrebbe essere presente anche l’ospite Tommy Buckley. Si conclude sentendo un lungo flusso d’acqua. Altro episodio orecchiabile lo si ritrova su “Even Weezles Get The Blues” (dopo la decisamente fastidiosa “She’s a stomper”). Qui l’atmosfera è da vecchio locale notturno, rifacendosi in maniera netta a certi sarcasmi delle Mothers of Invention, dove Frank Zappa sfornava dei testi resi ancora più taglienti perché posti su una struttura musicale apparentemente seria. Qui Fleury canta in maniera profonda, virando poi agli acuti, in modo totalmente diverso rispetto alla modalità schizzata adottata su altre composizioni. Una modalità vocale che a dire il vero continua in un modo o nell’altro nella successiva “Eskimo pie”, sempre tendente alle succitate Mothers, con andamento blueseggiante dettato dal sempre piacevole piano elettrico.
Andando agli altri pezzi, un ripetuto ascolto va sicuramente dato all’iniziale “Captain Introspective”, i cui pensieri introspettivi del testo, aperti da un pianoforte che acuisce questo senso di elucubrazione, vengono resi esilaranti dal contrasto con il disegno che accompagna il pezzo all’interno del libretto: una sorta di Bat Man super palestrato seduto a riflettere intensamente… sulla tazza del water! Lo stacco da prog-metal poi si tramuta subito in un assalto spezzettato stile Faith No More, dominato dalla voce totalmente schizoide di Fleury che diventa multiforme: dal tono sottile sforzato a quello più altisonante. Traccia sicuramente complessa, contenente diversi elementi non subito ravvisabili. “The Underground in Europe” sembra la canzonatura della parte operettistica dei Queen; andamento altisonante con testi che sbeffeggiano un atteggiamento ipocrita, tramite il quale si opprimono i poveri e si porta la presunta “democrazia” in altri Paesi, rimanendo sempre lindi e pinti agli occhi del mondo. Uno stato di cose rimarcato e reso simile ad uno sfregio tramite il ritornello in stile primi Green Day, per poi rincarare la dose suonando una parte al limite del death-metal più ipertecnico, concludendo con il solenne organo ecclesiastico con cui si santifica l’incoronazione. Anche “Maestro Mafioso” si dimostra divertente, sfruttando continuamente variazioni sia vocali che musicali, passando da spunti che sembrano trasfigurare per alcuni brevissimi tratti gli Iron Maiden del periodo con Blaze Bailey ad altri che toccano realtà italiche tipo i Calibro 35. C’è poi un intermezzo in cui si ridicolizza l’ambiente statunitense con la trasfigurazione dei lenti pop, sfociando ad un velocissimo assolo sulle sei corde e finendo ancora con un sacro requiem. Saltando alla conclusione, questa è affidata alla ancora più stramba “Cluendo”, stavolta più vicina ai Gogol Bordello, almeno all’inizio. Molto circense e poi deformata su una dimensione chitarristica in cui torna Tommy Buckley. Simon “The Vocal Viking” Fleury fa di tutto con la voce – anche oltre i limiti dell’ascoltabilità – e se fosse stato ancora vivo lo zio Frank, probabilmente, lo avrebbe assoldato per rimarcare i propri toni dissacranti. La traccia durerebbe in teoria tredici minuti, nella realtà finisce prima ed è seguita da un lungo silenzio, concluso poi da un paio di parole.
Sarebbe questo un album da consigliare ad un tipico prog fan? Risposta: assolutamente no. Anche perché, non essendo stato partorito da una vecchia gloria consacrata nei decenni, molto probabilmente non avrebbe la stessa sorte riservata invece a chi è stato definito “genio”. Gli ascoltatori, essendo spesso dogmatici, dicono di apprezzare anche ciò che invece era stato creato per disturbare; ma ovviamente non ha importanza, dipende da chi ne è l’autore. La seconda uscita di questo folle gruppo non è facile e non certo per tutte le occasioni. Rimane però oggettivamente divertente e da apprezzare alle giuste dosi, cogliendo elementi che come già detto possono sfuggire ad un primo ascolto.



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Michele Merenda

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