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ELISA MONTALDO |
Fistful of planets part II |
Black Widow Records |
2021 |
ITA |
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A pochi mesi di distanza dalla pubblicazione dell’album intitolato “Dévoiler”, uscito nel dicembre 2020, l’artista nota anche per essere la tastierista de Il Tempio delle Clessidre dà seguito al discorso cominciato nel 2015 con il suo esordio “Fistful of planets part I”. Due parti invero molto simili, anche se quest’ultima appare un po’ più elaborata rispetto alla prima. L’intento, come dichiarato dalla stessa Montaldo, era quello di ricreare la sua visione di un universo su cui si posa uno spesso strato di polvere. Qualcosa di estremamente antico, silenzioso e forse anche arrugginito. Una sensazione permeante di malinconia continua, ben affidata alla musicalità della lingua francese con l’iniziale “Vals des Sirèns (chanson) - second meteor of chaos”, che con il suono – per l’appunto – impolverato di un vecchio grammofono fa girare un vecchio disco che ogni tanto si incanta. È come un cimelio ritrovato in qualche detrito nello spazio, portando alla mente i racconti di Asimov sulla razza umana sparsa per le galassie, che ovviamente fa da contraltare con quella “first meteor of chaos” che chiudeva la prima parte del progetto; in quel caso vi erano voci robotiche, qui invece una dolce canzone retrò espressa con voce liricamente umana. Probabilmente, due facce della stessa medaglia solo apparentemente antitetiche, in quanto appartenenti a passati andati entrambi alla deriva cosmica e frutto comunque dell’ingegno della nostra specie. Lo stile continua ad essere minimale ma allo stesso tempo cura tutti i vari piccoli particolari, che vengono acquisiti col passare degli ascolti, ponendo ovviamente maggiore attenzione alla profondità delle atmosfere. Ne è un valido esempio “Floating/ Wasting Life”, dove i sintetizzatori, le chitarre, i vibrafoni e le campane tubulari di Hampus Nordgren Hemlin riempiono il buio del cielo, di cui Elisa Montaldo sembra la Luna che ogni tanto fa capolino tra le nubi. Un attacco, il suo, che si rifà quasi ai Porcelain Moon, seguendo poi con un’altra strofa l’andamento del pianoforte suonato sempre da lei. Si sale sui livelli più sottili del pianeta con la quasi strumentale “Earth’s call - exosphere” tramite il violoncello di Nina Uzelac, per poi fluttuare col flauto bucolico di Steve Unruh, che sempre memore delle lezioni tulliane si rifà alla cultura celtica. Il brano, poi, sfocia brevemente in una fase tipo colonna sonora da film sulle fiabe nordiche, chiuso da effetti elettronici impersonali che continuano a creare l’effetto stridente dell’umanità naufragata in mezzo ai relitti tecnologici tra le polveri siderali. E così, con la medesima visione si scivola nella dolcissima “We are magic – the fuchsia planet”, le cui colorazioni delicate e tipicamente femminili parlano di piacevoli visioni, necessarie per tornare a respirare e quindi vivere meglio il presente. Se non si riesce a trovar pace, occorre fermarsi, rilassarsi e sorseggiare un buon bicchiere di vino, perché c’è un segreto che permette di fermare il tempo; un cavalcare sensazioni positive che riporta alla più profonda essenza e che può avvenire solo perché… siamo magici. “Haiku” (componimento letterario giapponese del XVII formato da tre strofe) viene aperta dal pianoforte di Elisa, seguito dalle note pizzicate sulle corde della chitarra classica di Ignazio Servillo; in questo andamento si inseriscono i suoni della natura, argomento descrittivo proprio degli haiku. Prima il recitato in giapponese di Yuko Tomiyama e poi quello francese di Maitè Castrillo schiudono la porta ai successivi sinfonismi con i cori ad opera della titolare del progetto, che però terminano abbastanza presto, lasciando la sempre più malinconica conclusione alla chitarra che diviene man mano incalzante e che poi viene stoppata di colpo quando ormai ci si era immedesimati in questo nuovo crescendo. Steve Unruh torna con flauto e violino in “Feeling/ Nothing/Into the Black Hole”, creando nuovamente un mondo fatato. Solenne il pianoforte di Elisa, anche se accennato in maniera discreta, le cui note nella prima sezione si intrecciano con quelle degli altri strumenti. Il secondo movimento parla dell’oscurità in cui ci si trova a fluttuare mentre le anime sprofondano nello sconosciuto, venendo poi inghiottite nel buco nero della terza parte, concitata e ossessiva; ben strutturata tra voci continuamente uguali a loro stesse, le percussioni di Mattias Olsson e il sax in lontananza di Stefano Guazzo, viene poi arricchita dal pianoforte che si inserisce quasi in stile free, un po' alla Keith Tippett. Nei restanti tre brani finali, da segnalare la parte conclusiva di “Washing the Clouds – the white planet”, affidata totalmente alla musica e soprattutto alla chitarra elettrica di Ignazio Serventi (ma perché nelle partiture cantante si ha la sensazione che da un momento all’altro possa partire “Geordie” di Fabrizio de Andrè?), che poi lascia il passo al violoncello di David Keller per un finale le cui sonorità diventano densissime. Si registra anche la presenza al basso di Diego Banchero (Malombra, Il Segno del Comando). “Valse des Sirèns (grand finale) – satellite” conclude con la medesima melodia inziale, ad opera di Elisa Montaldo e Attala Alexandre, con l’arrangiamento orchestrale di Jose Manuel Medina. Il piano si muove su sonorità meno “impolverate” e stavolta più nitide, anche se l’effetto del vecchio giradischi viene comunque lasciato. Quanto ricreato a livello orchestrale risulta molto bello, quasi da concerto viennese. Potrebbe davvero essere il commento musicale al movimento di un satellite attorno al pianeta, che avrebbe trovato la sua piena realizzazione in una pellicola fantascientifica di Stanley Kubrick. Poi, quando tutto sembra finito, ecco che parte un suono inquietante, sempre tipico di certi film datati, su cui Elisa manda un suo messaggio nel cuore dello spazio sia in inglese che in italiano, facendo sovrapporre le due lingue. Sembrava, come detto, un album minimale. Eppure, nonostante questo, c’è stato tanto di cui scrivere. Ed il lavoro preso in esame diventa ancora più complesso se si pensa che esiste una sua versione come “box polisensoriale”, in cui suono, immagini e persino odori creano un’esperienza totale volta a stimolare proprio i sensi umani. Occorre quindi citare innanzi tutto Delphine, fotografa/grafica che ha realizzato le immagini presenti nel libretto, oltre alla stampa numerata e autografata di un ritratto fatto ed elaborato dalla stessa autrice su una carta speciale “velvet”. Per non parlare della scatola di cartone in oggetto, decorata dall’artista con i timbri dei tre loghi… “stregati”. Già, perché c’è anche una terza donna coinvolta: si tratta di colei che si cela sotto lo pseudonimo de La Strega del Castello, creatrice di profumi artistici di Genova. Assieme alla Montaldo hanno elaborato un profumo che potesse accompagnare l’ascoltatore soprattutto nella prima parte del disco, unendo l’olfatto all’udito per stimolare verso un livello superiore l’ascolto della proposta musicale, sfruttando la propria memoria olfattiva. Sicuramente un lavoro che va oltre i classici parametri, ad opera della misteriosa e (forse anche per questo) affascinante Elisa Montaldo.
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Michele Merenda
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