Home
 
ARAPUTO ZEN Majacosajusta NoWords Records 2021 ITA

Sono tornati i napoletani Araputo Zen, musicisti con un’età media relativamente bassa ma che già nell’esordio “Hydruntum” (2016) avevano dimostrato una tecnica eccellente da applicare al loro personale ethno-prog mediterraneo. Una ricerca della creatività che si dimostra dichiarazione di intenti fin dal nome, lampante riferimento all’espressione popolare “s’è araputo o’ zen” – cioè “si è aperto lo zen” –, che sta ad indicare la massima ispirazione (dopo aver possibilmente elucubrato), la classica lampadina che finalmente si accende e che fa esclamare il risolutivo: “Eureka!”. Il primo album, soprattutto nella parte iniziale, suonava più solenne, facendosi anche forte – in quella fase del lavoro – di costanti riferimenti iberico-moreschi; la seconda sezione guardava invece alla musica “zingara”, dimostrandosi molto più energica. Qui forse non si raggiungono i medesimi picchi di coinvolgimento, anche perché il violino non è protagonista a livello virtuosistico come in precedenza, tendendo invece a costruire dei brani che il più delle volte presentino delle sorprese nel finale. Inoltre, stavolta in un paio di episodi è presente anche la chitarra elettrica, sfuggendo così a quella dimensione acustica che poteva magari rinchiuderli in un determinato stereotipo, che comunque li proietta sempre nella dimensione prevalentemente strumentale, nonostante i vari suggerimenti che avrebbero voluto una voce solista, nel senso classico del termine. Visti i risultati, sembra molto meglio così, basandosi essenzialmente sulla creatività da infondere nei propri strumenti.
L’iniziale “Drummond nel vento” avvolge l’ascoltatore nelle atmosfere mediterranee, spaziando anche tra riferimenti che vanno dai conterranei Popularia ai piemontesi-valdostani I Treni all’Alba. Sei minuti in cui vengono poi ricreati momenti che tengono sospesi in una dimensione di contemplazione dell’orizzonte… quasi oppiacea, fino a sentire il verso del vento e dei gabbiani, mentre la musica va montando sempre di più come quella marea serale che si sente tra le note e che poi libera il proprio respiro con il violino, riprendendo infine il tema iniziale. Sicuramente più oscura la seguente “Makipegua”, interpretata come una sorta di milonga, dove lo strumento ad archetto recita fasi struggenti che potrebbero anche rifarsi ad alcune atmosfere siciliane. Le note di contrabbasso sono sempre presenti, addirittura inesorabili, soprattutto quando la composizione sembra destarsi per alcuni momenti. Il finale pare seguire il contesto cinematografico, ispirandosi molto vagamente a quelle musiche in cui Ennio Morricone sottolineava la malinconica stanchezza dei personaggi. Passando al breve intermezzo di “Venerdì mattina”, dove si sentono le voci della folla, si approda a “Velfio”, dedicata all’isola di Procida, il cui inizio è in evidente stile Indaco. L’uso del violino in chiave di ricerca etnica, ovviamente, non può non far pensare agli esordi solisti di Mauro Pagani (ex PFM), ma i nostri dimostrano comunque di saper camminare per la loro strada, soprattutto quando entra in gioco la chitarra elettrica, ben supportata dalle percussioni e dalla ritmica della chitarra acustica, oltre che da una sezione basso-batteria capace di conferire varietà all’andamento complessivo. Segue “Algheritmi” – composta assieme alla precedente traccia dal bassista Bruno Belardi, le altre sono tutte opera del chitarrista Dario De Luca –, che sembra decisamente più meditativa e minimale. Nella realtà, a partire dal terzo minuto, la musica torna a crescere come avvenuto nel brano di apertura, per lasciare nuovamente campo libero al violino. “(In)Sanità” è apertamente ispirato dal famoso quartiere “Sanità” di Napoli e, paradossalmente, pur trasudando di tradizione locale appare come un brano dal respiro internazionale, forse perché certe sonorità sono state fonte di ispirazione non solo in Italia ma anche all’estero. Torna poi la chitarra elettrica a livello solista, con note ficcanti e vorticose, tendente anche ad un certo tipo di psichedelia. Si chiude con la title-track, in cui l’estrazione jazzata si mescola alla cultura etnica, rinverdendo quindi il concetto primario che stava alla base del termine Fusion. Composizione briosa, che poi si immette nella solita dimensione in cui tutto è sospeso, con echi di voci che a loro volta finiscono per esplodere in vocalizzi inquietanti, per l’appunto fusi in momenti divenuti angoscianti ma che vengono ben presto rischiarati. Forse, sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa in più per quello che doveva essere il gran finale.
Vanno citati questi cinque ragazzi campani: Dario De Luca (chitarra, mandolino, voce), Alfredo Pumilia (violino), Valerio Middione (chitarra), Pasquale Benincasa (batteria, percussioni) e Bruno Belardi (basso). L’album dura solo trentatré minuti, che in buona parte riescono a condensare dei contenuti che così non rischiano di annoiare l’ascoltatore, fatta eccezione per il succitato ultimo pezzo, che come detto avrebbe meritato di essere sviluppato ulteriormente. Sarà importante il terzo lavoro, in cui i vari riferimenti a nomi talvolta “minori” (non certo per la proposta ma per i riscontri commerciali) – a cui vanno aggiunti i liguri Motus Laevus, a proposito di estrazioni mediterranee – dovranno essere ulteriormente elaborati per potersene affrancare totalmente e quindi diventare a loro volta un punto di paragone per tutti gli altri. Se occorrerà del tempo per giungere a questa maturazione, che ben venga. Non bisogna aver fretta.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Italian
English