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THE GONG FARMERS Guano junction Spaceward Records 2021 UK

Si potrebbe pensare che con un nome simile i nostri siano dediti ad un revival assolutamente Canterburyano. In realtà, ogni tanto, dei rimandi a quella particolare scena ci sarebbero anche, ma il moniker non è affatto un tributo alla ben più famosa band di Dave Allen, Steve Hillage e Pierre Moerlen. I Gong Farmers, infatti, erano quei contadini che avevano l’ingrato compito di pulire in Inghilterra le latrine e i pozzi neri! Una terminologia in uso sotto la dinastia Tudor, sebbene il mestiere in questione risalga per lo meno al XIV secolo. Senza volersi soffermare sull’argomento, pare che l’uso della parola “gong” derivi dall’inglese arcaico gang, corrispondente a “to go”, letteralmente “andare”, qui inteso in senso lato… e pure figurato! Terminata la breve lezione di Storia (non certo delle più piacevoli, a dire il vero), la band è composta nella sua struttura portante da un duo, vale a dire Mark Graham (voce, sintetizzatori, chitarra) e Andrew Keeling (chitarra classica, pianoforte, organo, flauto), con la collaborazione di amici e colleghi anche illustri, tra cui vi è pure David Jackson (Van Der Graaf Generator). I due si formano nel 2018 dopo una visita a un castello irlandese ed oggi giungono al secondo album. Un lavoro che continua ad approfondire i temi dell'amore e della perdita, già affrontati nel primo “Ship of fools” (2019).
Così, dopo il breve inizio etereo e triste di “As Sunlight Falls” – pochissime parole recitate, comunque ad effetto nella loro metafora –, il malinconico flauto si fa largo tra gli accordi intensi di chitarra classica in “Drive”, prima che si cominci ad intrecciare ad esso proprio il sax di David Jackson, per un effetto in stile Canterbury avvolto nella bruma. Si aggiunge poi la voce volutamente impersonale di Alex Che (Modern Eon, Che), con cui si narra come si è solo di passaggio (una vera “allegria”, le tematiche espresse lungo tutto l’album, lo si specifica). Proprio per questo la traccia è costruita come se si trattasse di un sogno, che va salendo verso un apice per poi degradare inevitabilmente, persino tentando alla fine di resistere per non svanire. “Pip, Squeak and Wilfred 1” si apre quasi come un arrangiamento del Beethoven più romantico in stile Claudio Simonetti, divenendo poi un lento da ballare stretti, con l’anima che vaga senza fissa dimora tra un vago sentore soul e la dark-wave. Nel frattempo, con i suoi soliti versi concisi, Mark parla del momento in cui trovò le medaglie di guerra del padre, immaginando così le grandi sofferenze ad esse legate, sottolineate dagli archi ad opera di Noko 440 (Apollo 440), che con un giro insistente e bene evidenziato rende l’ineluttabilità sia dei fatti che dei pensieri ossessivi. Dopo lo pseudo andamento caraibico (sotto effetto di qualcosa) presente su “Guano Junction 3” che lascia francamente il tempo che trova, l’ispirazione torna grazie ad “Evergreen”; i soli Alex Che ed Andrew Keeling trasfigurano gli accordi blues in chiave bucolica e con assoluta serenità, tra i vari effetti synth nello stile di Moby, lo stesso Alex canta del desiderio di piantare un albero, che si rivelerà quello della vita, vedendolo crescere mentre le stagioni dell’esistenza passano più velocemente di quanto si possa pensare. Un momento che tocca davvero le corde dell’anima, seguito da una nuova immagine del crepuscolo con “As Sunlight Falls 2”, qui affidata solo ai violini del solitario Ricardo Odriozola, in un’atmosfera dalla seraficità quasi nipponica. Nei seguenti sette brani, va citata la strumentale “Guano Jinction 2”, ancora con David Jackson, simile inizialmente allo stile dei Pensiero Nomade e poi (almeno un po’) a quello di Robin Taylor; ci sarebbero poi la sperimentale “SHAVE!”, “Dark Skies” caratterizzata dai tuoni e dalla pioggia che formano parte integrante della composizione e la conclusiva “Pip, Squeak and Wilfred 2”. Quest’ultima è quasi identica alla traccia omonima di cui si è parlato poco sopra, con l’arrangiamento d’archi però ancora più marcato e drammatico, presentando il famoso giro orchestrale ancora più presente ed insistente, continuandolo a ripetere anche quando cessa la musica come quella che diventa una fastidiosa ossessione, probabile rappresentazione di un pensiero che si fa fatica ad abbandonare per la sua penetrante persistenza.
Un certo Franco Mussida (ex PFM), parlando a suo tempo della possibile evoluzione del prog, in sede di intervista (che potete trovare tra le pagine virtuali di Arlequins) ebbe modo di comunicare delle riflessioni sulla ricerca ed il minimalismo, vedendo il prog stesso trasformarsi in qualcosa di sempre più creativo, legato alla sensibilità e meno all’appariscenza. Si tratta di elementi da ritrovare proprio nei lavori dei The Gong Farmers, che certamente sfuggono alle concezioni solite di rock progressivo, andando oltre i parametri del rock medesimo, pur progredendo con la loro proposta musicale. Questa si rivela molto gradevole e per lunghi tratti interessante, spingendo a soffermarsi nell’ascoltare i particolari a volume un po’ più alto, nonostante le strutture in apparenza semplici ma non certo semplicistiche.



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Michele Merenda

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