Home
 
TEJAS ASTRAS Alien decadence autoprod. 2021 ITA

Negli antichi miti dell’India – tra le altre cose –, vi era anche la narrazione delle potenti armi divine, le tejas astras, che in sanscrito significa letteralmente “armi di energia”. Partendo da questo spunto suggestivo, nel 2018 viene fondata a Torino la band omonima, composta dal duo Denny Deimos (voce, tastiere, armonica, batteria, drum machine) e Frank Sirius (chitarre, batteria, drum machine) – rispettivamente Denis Di Nicolò e Francesco Paternicò –, esordendo nel 2020 con un album auto-intitolato. Misteri, complotti, ufologia, fantascienza e denuncia sociale rientrano nelle tematiche affrontate, cantate rigorosamente in italiano. Poco dopo, entra in formazione anche Gustav Sulfur (basso, batteria, drum machine), che porta competenza e maggiore ecletticità. Come si può intuire, l’uso della batteria elettronica risulta basilare per il sound del terzetto, ricreando quella coltre algida e sintetica presente nelle compagini anni ’80, applicata però ad un contesto che non rinnega le radici rock. Si crea così qualcosa di decisamente atipico, la cui valutazione sul risultato finale è assolutamente soggettiva, oscillando tra quella che potrebbe essere vissuta come una proposta creativa oppure indigesta.
Un suono di carillon apre “Destinazione Alienazione”, seguito da risate che hanno oltrepassato la soglia dell’esaurimento nervoso; è il degno manifesto di quella che idealmente viene identificata come la prima parte dell’album, intitolata esplicitamente: “Degenerazione”, composta da quattro brani. Così, l’ossessività la fa da padrona assoluta e incontrastata, guardando già su questa traccia iniziale verso lo space-rock angoscioso e angosciante degli Hawkwind, puntando poi su sintetizzatori in stile seconda metà seventies, oltre che su su riff continui e – come già detto – ossessivi. Aggiungendoci poi i corposi giri di basso, si comprende bene come questo inizio miri a creare esasperazione. “Più Forte Della Luna” sembra cantare della disillusione dopo una fase di esaltazione totale. Come da note di copertina, questo è un omaggio a “L’uomo invisibile”, film del 1933 di James Whale, a sua volta trasposizione cinematografica del romanzo di H.G. Wells. Ovviamente, i riferimenti non potevano non essere rintracciati in vecchie pellicole cinematografiche, aumentando così il voluto senso di solenne pesantezza. Tra i rimandi musicali, oltre ai già citati Hawkwind, ci potrebbero essere anche i Blue Oyster Cult, senza però le capacità messe in risalto da quest’ultimi durante gli esaltanti assoli sull’asse chitarra/tastiere. In questo pezzo, poi, si registrano momenti in cui i riff si smorzano per aumentare la tensione onirica. Su “Esploratori Dell’Ignoto” si parla di pianeti, piramidi egizie e macchinazioni di falsi sapienti. È anche un tributo che la band fa a se stessa, oltre al fatto che qui viene elaborata – stando a quanto hanno dichiarato i diretti interessati – la destrutturazione di “Così parò Zarathustra” (Richard Strauss), chiudendo poi con un omaggio a “La danza delle sciabole” (o delle spade) del compositore armeno Aram Il'ič Chačaturjan. “Buio Nel Cielo” è aperta da un bel gioco di basso e chitarra, rivelandosi più da atmosfera e finalmente lasciandosi ascoltare nel senso più convenzionale del termine.
Una insperata rilassatezza è il ponte che collega alla seconda parte: “Dissociazione”. Le ritmiche non sono più martellanti e si ricerca l’atmosfera rarefatta che però non allenta la sensazione di oppressione. Probabilmente, aleggiano i colori scelti per la copertina – nero, frontalmente, e una specie di bianco-blu allucinato sul retro –, facendo sentire l’ascoltatore intrappolato fino a tarda ora in qualche sperduta sala d’aspetto ambulatoriale (rigorosamente intrisa dall’odore di disinfettante!). Lo sguardo verso gli anni ’80 qui è nettamente maggiore e la dark-wave diventa protagonista tramite i suoni sintetizzati, riportando alla mente quello che era un tempo tristemente posticcio… e in certi ambiti fortemente eroinomane. È quindi un viaggio verso la spersonalizzazione e l’alienazione, naufragando tra gli estratti della chimica (altamente sintetica, ovviamente). Dopo la strumentale “Il volo del Vimana”, cioè il misterioso oggetto volante di cui si parla più volte nei testi sanscriti, occorre prestar attenzione a “L’oltre uomo”, dedicata a Gustavo Adolfo Rol, sensitivo italiano resosi protagonista anche di eventi paranormali; per alcuni erano esperienze autentiche, per altri questi non era altro che un abilissimo prestigiatore ed illusionista, in quanto non accettò mai di sottoporsi ad un’indagine scientifica. E infine, dopo “Telepatia virtuale”, si conclude con la lunga “Mister Roswell”, sorta di suite divisa in sette parti in cui si affronta il caso Roswell, cioè una presunta occultazione della caduta di un UFO spacciato per un pallone sonda. Nella realtà, pare si trattasse di una delle sonde della missione segreta Mogul, nell’ambito dello spionaggio militare ai danni dell’URSS. Chiaramente, qua si opta per la versione del complotto governativo che addirittura perseguita un testimone, chiudendo la scena su chi decide di fuggire da un mondo privo di magia.
Forse, anche questo potrebbe essere definito prog. Del resto, se in quest’ambito è stato fatto rientrare di tutto, perché non potrebbe farlo anche la proposta del trio piemontese, che di sicuro contamina ed espande la propria proposta, in alcuni frangenti non molto lontana dal RIO o dallo Zeuhl. Che poi possa piacere o meno, come già accennato, è assolutamente soggettivo. Anche perché, in questi casi, gli artisti a volte entrano nel paradossale loop in cui si vorrebbe non piacere… per poi piacere a chi li possa apprezzare davvero. Alla platea, l’ardua sentenza.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Italian
English