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LOBATE SCARP You have it all autoprod. 2022 USA

Le scarpate lobate sono giganteschi muri di roccia che si innalzano sulla superficie di Mercurio raggiungendo altezze che possono arrivare a un centinaio di metri. Questo nome così particolare non è molto musicale a sentirsi ma doveva adattarsi bene ad un album come “Time and Space”, l’ambizioso esordio discografico del gruppo americano risalente al 2012, per la cui realizzazione vennero scomodati ben 50 musicisti. Il nuovo album si avvale a sua volta di diversi ospiti che includono Jon Davison e Billy Sherwood degli Yes alla voce in una traccia, Ryo Okumoto (tastiere) e Jimmy Keegan (batteria) degli Spock’s Beard, Eric Moore dei Suicidal Tendencies sempre alla batteria oltre a un quartetto d’archi e ed altri musicisti d’orchestra. I veterani della band sono invece Adam Sears (voce solista e tastiere) ed Andy Catt al basso.
Tutto questo dispiegamento di forze viene impiegato per un progetto che ha in realtà poco di sinfonico. O meglio, gli arrangiamenti sono spesso orchestrali ma l’appeal è quello di un gruppo AOR o al massimo New Prog che cura molto il proprio sound, pomposo e sgargiante, ma che trova i suoi riferimenti nel pop più che nella musica classica. I tanti musicisti coinvolti sembrano in questo caso una vetrina da ammirare più che una risorsa per potenziare gli arrangiamenti ed il racconto sonoro. Eppure i Lobate Scarp ce la mettono tutta per darsi un certo tono e ricorrono anche ad una suite, “Flowing Through the Change”, un brano di circa 17 minuti collocato in fondo alla scaletta come gran finale.
Inizierei proprio da qui la mia disanima evidenziando le sofisticate colorazioni tastieristiche con delicate influenze Cameliane nei momenti strumentali, con archi sullo sfondo ed una chitarra limpida e filiforme. Il cantato rimane l’elemento focale e quando entra in gioco il substrato sonoro si affievolisce per lasciargli spazio, scorrendo in modo timido lungo una base ritmica regolare e costante. Ed è quasi come se il pilota automatico fosse ormai inserito a questo punto lasciando che la musica scivoli via da sola, lungo un sentiero agevole, senza troppi scossoni. E’ vero che il brano presenta ampi intermezzi strumentali, ben cesellati e dalle melodie ampie e suggestive, ma non è semplicemente una lunghezza superiore alla media a fare di un brano una vera e propria suite. Alcuni pezzi alzano un po’ di più la testa, con chitarre più in evidenza e ritmiche leggermente più articolate, come “Our Test Tube Universe” o come “Nothing Wrong” in cui gli Spock’s Beard si percepiscono distintamente come riferimento cardine, ma in linea generale tutto è predisposto per non creare traumi e scossoni nella testa dell’ascoltatore che deve focalizzarsi senza fatica sulle melodie morbide e sulla bellezza dei suoni. La vocazione di gruppo orecchiabile e cantabile scaturisce costantemente al di là delle belle orchestrazioni, come possono essere quelle che assaporiamo nel delizioso strumentale “Circuit”, con il suo 4/4 costante che sorregge nuvole di synth dai contorni limpidi, arpeggi eleganti di chitarra, teneri solo di violino e di organo. In alcuni casi questa attitudine di gruppo per tutte le orecchie porta ad appiattimenti eccessivi, come in “Life-Line” in cui gli arrangiamenti si spengono sotto il peso di un cantato regolare e monocorde in un insieme che ha l’aspetto di un vecchio cavallo di battaglia AOR. Credo che la qualità dei musicisti sia indiscutibile, così come non posso discutere l’ottima realizzazione di questo album che per sua natura verrà rapidamente consumato dagli ascoltatori più esigenti che non si accontenteranno tuttavia di una invitante ma effimera glassatura di superficie.



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Jessica Attene

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