Home
 
MOBIUS Make the promise White Knight Records 2022 USA

Salutiamo con piacere l’esordio di questo nuovo progetto fortemente voluto dal tastierista “veterano” Tim Newcombe, che sparse i semi della band già nel 2012, ispirato da nomi come Pink Floyd, Yes e Porcupine Tree, desideroso di ideare qualcosa di originale che contrastasse le proposte stereotipate propinate dalle radio commerciali. Dopo numerose false partenze, che lo costrinsero a tenere in naftalina il suo sogno musicale, nel 2020 Tim incontrò il bassista Alistair McCaig in un locale del Sud dell'Inghilterra e scoprì di condividere con lui molte idee e l’entusiasmo per lo stesso genere musicale. Per completare il puzzle, Tim ricorse ad alcune sue vecchie conoscenze incrociate in occasione del suo lavoro di session man, ossia il batterista Andy Clifton e il talentuoso chitarrista Andy Hughes, completando così il nucleo vitale del gruppo. A cavallo tra la fine del 2020 e i primi mesi del 2021, Tim si gettò a capofitto nella scrittura e nello scambio del materiale con il resto della band, dato che le registrazioni di tutte le tracce si sono svolte a distanza a causa delle restrizioni imposte dalla crisi del Covid-19, arruolando anche sua moglie Louise per arricchire le armonie vocali e suonare il sax in una traccia, nonché le coriste gospel Sandra Morris e Monika Welch. L’incontro con la White Knight Records (che ricordiamo principalmente per il progetto Tiger Moth Tales del multistrumentista Peter Jones) ha permesso infine la pubblicazione e la distribuzione del lavoro finito nelle nostre mani, composto di sole quattro tracce, di cui due possono vantare una durata poco inferiore ai 20 minuti.
Di cosa si tratta, dunque? Lasciamo dapprima parlare lo stesso Tim: “mi piace sperimentare con le metriche, i cambi di tempo, gli stili, il ritmo e la giustapposizione delle timbriche all'interno dello stesso brano”, e questa pare quasi una definizione del progressive stesso. In effetti, l’album si apre nel migliore dei modi con la fantasiosa suite strumentale in dieci movimenti “Odyssey”, che pur lungi da evocare le peregrinazioni di Ulisse (non abbiamo a che fare con l’oscura epicità dei Van der Graaf!), si snoda con disinvoltura tra situazioni che costituiscono tappe di un viaggio di scoperta musicale: abbiamo a che fare con un rock melodico infuso a tratti di fusion, senza alcun equilibrismo tecnico sterile, la chitarra liquida, il piano elettrico e i synth che pure spesso evocano il lavoro di Richard Wright di metà anni ’70 (in special modo Animals) sono compatibili con una certa sensibilità new-prog inglese del decennio successivo, in particolare la mia mente è tornata all’album “Journey to the East” dei recentemente riformati Castanarc. Una proposta in punta di piedi che si fa apprezzare proprio per la compostezza e l’equilibrio. Al termine di questo tour de force, posto con coraggio in apertura dell’album… ne troviamo subito un altro, “Rain another day”, e stavolta avremo modo di apprezzare il virtuoso Hughes anche in veste di vocalist, e – sarà una mia suggestione – ma la somiglianza (nelle sezioni più soft) della sua timbrica con quella di Mark Holiday rafforza i paragoni con la già citata band del sottobosco prog inglese. Man mano che il brano si rivela troviamo dell’altro: si evidenzia l’importanza del pianoforte e si apprezzano gli interventi di sassofono; purtroppo non tutte le note sono positive: il pathos del brano precedente è molto diluito e certe escursioni vocali di Andy nel suo range più acuto suonano stridenti. Tutto ciò non inficia troppo il valore del brano, che in fondo tiene alto il nostro apprezzamento, pur palesando una produzione un po’ “ruspante”. I difetti, a mio avviso, si riscontrano invece nelle più brevi tracce che seguono: “So they tell me” e “Spider” mostrano entrambe una versione assai banalizzata del mobiUS sound (notare l’uso delle maiuscole che distingue questa band da altre omonime), sconfinante nel pop-rock e con delle irritanti (spiace dirlo) performance vocali, molto stereotipate e a mio avviso completamente avulse dal contesto.
In definitiva, il mio giudizio finale non può non essere influenzato dal fatto che l’album non mantiene quanto promesso dal bellissimo brano di apertura, e che il mio gradimento scenda progressivamente: forse un lavoro di soli 37 minuti sarebbe stato coerente ed avrebbe lasciato un ricordo migliore, ma a volte accade che nelle opere di esordio si voglia concentrare tutto quanto composto in dieci e più anni di gavetta, e che non si abbia la giusta lucidità per scremare quanto di valido da ciò che è trascurabile.



Bookmark and Share

 

Mauro Ranchicchio

Italian
English