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MOVERS Futurist at the end of time autoprod. 2022 USA

Non ricordo per quale motivo fui attratto all’ascolto del secondo album dei Movers, statunitensi della Georgia, dal titolo “Futurist at the end of time”. Forse il fatto che fossero americani (ho un debole per la scena prog made in USA…), forse per la copertina “futurista” che continua a non piacermi, ma che comunque è particolare. Chissà. Ho iniziato così ad ascoltare l’album uscito solo nel formato “liquido” e ne sono rimasto conquistato.
Ma vediamo chi sono i quattro Movers: la band è composta da Collin Ferguson (chitarra e voce), Drew Serrero (batteria), Jackson Johnston (synth e voce) e da Brian Anthony Wilson (basso e voce). L’album d’esordio, omonimo, (anch’esso solo in formato digitale) era uscito sul finire del 2020, ma è con “Futurist…” che notiamo un notevole salto di qualità nelle composizioni, pur essendo profonde le ispirazioni ai “numi tutelari” della band (Rush e Floyd… soprattutto).
Il brano che introduce l’album, “The race” è in pieno Rush-style del periodo “Grace under pressure” con synth molto brillanti, un bel drumming ed un refrain subito coinvolgente. La title track, paradossalmente il brano più corto presente, è un pezzo acustico dalla piacevole linea melodica. Con “Spiders in the woodwork” si entra in territorio Floyd con atmosfere sognanti e dilatate che poi si increspano con accenti più hard. Notevoli gli incastri ritmici che arricchiscono la già buona ispirazione. “Leviathan” è un frizzante rock, con ancora qualche richiamo Rush mid-eighties, ma con chitarra più ficcante. “All in good time” ci riporta su sentieri “floydiani” con uno splendido guitar-solo ed un inserto di flauto (direi campionato) che conferisce quel quid ulteriore al brano. La suite conclusiva “Marcus’ desolation chapter II”, divisa in sei sezioni, è quanto di meglio prodotto, almeno sinora, dalla band georgiana. Molto heavy-sinfonica l’overture strumentale con un gran lavoro ritmico e l’ombra di Geddy Lee e soci che aleggia sulla composizione. Di gran gusto gli interventi dei synth di Johnston e bella l’interpretazione vocale. Ben bilanciati i momenti più riflessivi ed acustici con quelli decisamente grintosi ed hard rock. I quindici minuti della track scorrono via che è un piacere ed i quattro ragazzi (piuttosto giovani dalle foto…) ci sanno veramente fare come dimostra l’incisivo “solo” di Hammond, che porta un pizzico di “vintage” al brano, dopo un furioso estratto strumentale di assoluto valore.
Un album davvero piacevolissimo, magari “acerbo” in qualche frangente e (troppo) ambizioso in altri, ma sufficiente per capire che le qualità ci sono. Attendiamo, dunque, un terzo album sperando che possa essere anche in formato cd (almeno).



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Valentino Butti

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