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APOCALYPSE (USA) The castle Out-Sider - Galactic Archive 2021 USA

Sembra incredibile, eppure continuano ad uscire dischi registrati negli anni ’70 che finora non avevano visto la luce. Stavolta vi parliamo degli statunitensi Apocalypse. Provenienti da Chicago, si formarono su iniziativa dei fratelli Michael e Tom Salvatori. Il primo sposò la tastierista Gail Sutherland nel 1973 e cullando l’idea di creare una band in famiglia, costruì uno studio di registrazione casalingo. Ai tre si aggiunse il batterista Scott Magnesen e insieme suonarono per un paio d’anni, avendo anche occasione di esibirsi in qualche concerto nei collage dell’Illinois. Nel 1976 fu poi inciso in presa diretta un demo con cinque brani, che però è rimasto nel cassetto per tanti anni. Addirittura si pensò che era andato perso in un incendio, fino a quando non è stato ritrovato nel 2021. Nello stesso anno ecco finalmente la pubblicazione ufficiale, solo su vinile, da parte di una casa discografica spagnola. Già la copertina porta ai fasti dei seventies, con un disegno in cui si vede un paesaggio pastorale/medievale, con tanto di castello. E anche i testi vanno proprio sul versante favolistico. È presente poi nella confezione un inserto contenente una accurata biografia e delle foto d’epoca. La musica? A questo punto è lecito aspettarsi un rock sinfonico che più classico non si può e le attese non vengono deluse, grazie ad una serie di composizioni finemente articolate tra incroci di chitarra e tastiere, cambi di tempo, inserimenti di mellotron, violino e flauto e ricercate melodie vocali, in cui si alternano canto maschile e femminile. I punti di riferimento? I soliti noti: Yes, Genesis, Gentle Giant e Renaissance. Nulla di nuovo, eppure i trentotto minuti in cui si dipana l’album scorrono piacevolmente e non stancano un attimo, nonostante le sensazioni di “già sentito”. Il primo lato del vinile presenta tre brani che già offrono un saggio della bravura degli Apocalypse. La qualità è subito alta, ma è il lato B che offre il meglio, dapprima con la title-track, che si rivela splendida composizione inizialmente molto elegante ed orientata verso un romanticismo malinconico, con l’utilizzo del violino che fa venire in mente i Wolf di Darryl Way e con un finale letteralmente esplosivo, per merito di un assalto sonoro maestoso guidato dalle tastiere distorte e in cui si ritaglia un bello spazio anche la chitarra elettrica. Poi c’è “All the people”, che con i suoi dieci minuti e mezzo va a chiudere il disco in grande stile, con un prog dai delicati equilibri elettroacustici, una dinamica ben studiata e continue variazioni di ritmo e di atmosfera. C’è da dire che le parti cantate non sono esattamente il massimo e rappresentano il punto debole di un disco che, al di là di questo aspetto, contiene una proposta musicale lodevole. Fosse uscito all’epoca della registrazione, “The castle” non avrebbe stravolto la storia del prog a stelle e strisce come lo conosciamo oggi. Ma avrebbe fatto una gran bella figura e la fa anche oggi.



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Peppe Di Spirito

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