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HEAVEN OF ECHOES The indifferent stars autoprod. 2022 UK/GER

Il cantante inglese Paul Sadler ed il polistrumentista tedesco Andreas Hack uniscono le forze e danno vita a questo progetto che risente molto delle influenze metal, con atmosfere che però suonano “incombenti” e che vorrebbero a loro volta risuonare di tanto profonda quanto cupa malinconia, sfiorando così anche la filosofia musicale del gothic. Certo, non ci sono gli orpelli sinfonici ostentati da alcune compagini del settore, ma ci si avvale comunque delle partiture di “riempimento” ad opera dell’arpista elettrica Nerissa Schwarz, oltre al drumming di Wolfgang Ostermann, entrambi compagni di Hack nei Frequency Drift. A dire il vero, questa vena malinconica la si potrebbe rintracciare sia nella band tedesca appena citata e sia negli Spires, prog metal band in cui Sadler sta dietro al microfono e suona una delle due chitarre, dove il nostro si produce anche in cavernose voci death. In questa uscita non arriva… a tanto, producendosi comunque in varie tonalità, che sfruttando il falsetto parrebbero a volte sembrare anche femminili. Il suo è in effetti un apporto sostanziale, indipendentemente se si apprezzi o meno la proposta, mostrando una versatilità già evidenziata sul suo debutto solista “Soon to be assorbed” (2021).
Nel lavoro preso adesso in esame, che parla di sentimenti molto forti e profondi, l’iniziale “Sirensong” dà l’impressione di far sprofondare in oscure catacombe, celate nel sottosuolo di qualche strano pianeta, perso nel cosmo; una sensazione di estraniazione ricreata anche con gli elementi percussivi che aprono la seguente “Orator’s Gift”, che alterna momenti molto romantici (dettati dalla voce di Paul) ad altri in cui pare che dei tuoni scuotano la terra fin dalle sue fondamenta. Tonalità gravi che sembrano anch’esse arrivare dallo spazio, luogo in cui – come è noto – il suono non dovrebbe propagarsi…
Una sensazione enigmatica che si accentua su “Stasis”, in cui però la ritmica diventa più prog grazie al lavoro complesso della batteria, che si muove tanto leggera quanto articolata. Questa fase viene ampliata sui nove minuti di “Endtime”, che nella seconda parte diventa più oscura, fino ai confini col dark, facendo poi risuonare tante voci con grande effetto. “The Lord Giveth” è l’unico brano composto dalla Schwarz – gli altri, musicalmente, sono tutti opera di Hack – suonando differente rispetto al resto, con un bel ritornello (sempre malinconico, sia chiaro!) ed un finale drammatico, anche se poi tutta la produzione dell’album tende ad uniformare ogni brano. Il gran finale è lasciato ai dodici minuti di “Le Them In”, dove Sadler torna anche a suonare la chitarra. Questi, si inserisce con le seri corde in un momento di stasi verso la fine del quinto minuto con un breve assolo, dando il via all’apparente fase rivitalizzante di una composizione che fino a quel momento non si discostava molto dalle altre, mettendo in evidenza l’inserimento di tonalità gravi. Apparente, appunto, perché poi tutto ripiomba nel malinconico; ma finalmente l’arpa si sente con chiarezza e non ci si deve sforzare di rintracciarla… Da sottolineare il momento in cui tutto sembra essere sul punto di esplodere, prima di terminare con una parte dove si guarda finalmente verso la luce e la chitarra elettrica viene lasciata libera di esprimersi, mentre il pianoforte porta avanti in secondo piano il proprio commento musicale.
Le influenza di questo nuovo progetto, oltre che nelle band di provenienza, potrebbero essere rintracciate nei The Pinaepple Thief, negli ultimi Porcupine Tree, ma anche in alcune cose dei norvegesi Leprous, soprattutto per l’uso della voce. Questo esordio risulta indubbiamente ben prodotto, tendente – come si è già detto – ad uniformare tutto quanto espresso nel suo interno. Così, la sensazione è quella di ascoltare un unico brano di oltre quaranta minuti, che accompagna con discrezione tra i meandri in cui splendono da lontano queste “stelle indifferenti”. Lo si consiglia a chi si bea, a sua volta, di sentir splendere in sé la cupezza dell’Universo. E scusate per l’ossimoro.



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Michele Merenda

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