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KUDELSKI Call the distant autoprod. 2023 POL

Già batterista dei connazionali Love de Vice, autori fin qui di tre album, il polacco Tomasz Kudelski dà alle stampe un particolarissimo album a proprio nome, in cui fa da compositore ed affida quasi tutte le partiture ad altri musicisti. Il progetto Kudelski sembra (concettualmente) ricalcare quello di molte pubblicazioni firmate da John Zorn, in cui l’artista statunitense di origini ebraiche compone musica poi eseguita per l’occasione da altri colleghi. Lo sviluppo è però decisamente differente, perché qui tutto suona indefinito, triste e malinconico, ricalcando lo stile della copertina e dell’intera confezione (davvero molto bella, apribile e con delle foto).
Che genere è, quello portato avanti con la sigla Kudelski? Sicuramente c’è molto ambient, atmosfere oniriche e (ribadiamo) malinconiche, come se ci si trovasse in una fredda notte in cui si diffonde la luce lunare, nemmeno poi così forte. Di certo, nonostante si tratti di un’autoproduzione, può essere apprezzata la grande professionalità nella cura delle strutture e dei suoni, coinvolgendo professionisti del settore provenienti da varie nazionalità. E poi l’uso prevalente di pianoforte e strumenti ad arco apporta spesso chiari riferimenti alla musica da camera, contribuendo a dar forma a questo alone di irreale mestizia, pur sprigionando di tanto in tanto qualche barlume di orgoglioso risveglio. È ciò che accade su “Academy of Fear”, tra sinistri effetti e percussioni elettroniche appena accennate che avvolgono il tema di pianoforte, mentre Jacen Szabrański quasi sussurra con voce volutamente impersonale il testo (per nulla allegro, fin dal titolo) ad opera dello stesso Kudelski. Poi, al sesto minuto, alcune brevi dissonanze fanno deviare verso un tema dal sapore jazzato, decisamente più allegro, che comunque dura abbastanza poco. “Nobody Wins” (altro titolo programmatico…), nei suoi quattro minuti, risulta meno dispersiva e la bella voce di Sheela Gathright viaggia sulle stesse limpide frequenze del pianoforte suonato da Miquel Brunet. Strumento che su “Santa Catalina” viene invece affidato ad Aga Derlak, accompagnato come in buona parte dei casi dal Bunyola Strings Ensemble, a cui qui spetta il compito di dare nei limiti del possibile un minimo di vivacità (ma senza esagerare, per carità!) in alcuni momenti di nostalgia. Musica che qualcuno ha anche definito “illustrativa”…
“S.A.D.” è l’ultimo dei pezzi cantati, qui affidato nuovamente alla tristezza esistenziale di Szabrański, anche se ogni tanto le percussioni di Nailé Sosa Aragón vorrebbero creare più esuberanza. Ai tasti d’avorio, Brunet sa essere sempre tanto discreto quanto completo, ben incalzato poi dagli archetti; da registrare le apparizioni dei fiati di Marcos Monge, grazie ai quali – a metà composizione – sembra prima che qualcuno stia gemendo in lontananza (se non addirittura piangendo), per poi dare al finale una connotazione quasi da caos free, seppur assai contenuto. Quindi, nei successivi “The Night – Out of the Sahadows”, Road to Oriènt” e “Back Keys” compare finalmente anche il titolare dell’album, suonando l’ukulele. Tra quelli menzionati, occorre senza dubbio approfondire la struttura del secondo titolo che, come si evince, propone palesi riferimenti etnici. La costruzione diviene man mano più ricca e complessa, persino con qualche vago sentore di elettricità; presente all’esecuzione su strumenti cordofoni Tomasz Osiecki (già ospite proprio dei Love de Vain). Molto bella e solenne l’alchimia che si crea poi tra le percussioni ed il violino di Enrique Barrenengoa. Ma anche “Black Keys” risulta interessante, con un andamento stavolta decisamente positivo, come se ci si stesse iniziando finalmente a scrollare di dosso la nebbia. Nella seconda sezione fa persino la sua comparsa l’organo Hammond suonato da Maciej Caputa, mentre le percussioni di Aragón divengono sempre più incalzanti, ben supportate in momenti strategici dal sax di Monge. Al solo Brunet viene lasciata l’esecuzione di “Academy of Fear (reprise)”, tre minuti e mezzo di pianoforte limpidissimi, in cui il tema portante risuona senza alcun appesantimento; in maniera fluida si susseguono musica classica e spunti che vanno dal jazz al blues, facendo risaltare il respiro da ora notturna.
In principio, buona parte delle tracce qui contenute sembra avere un minutaggio fin troppo lungo. Poi, riascoltando e cogliendo nuovi particolari, si tende un po’ a modificare la prima impressione. Una pubblicazione sicuramente atipica, senz’altro valida, che fa molto piacere ascoltare per ritagliarsi dei sani momenti di relax, usufruendo di composizioni per nulla banali.



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Michele Merenda

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