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RICOCHET |
Kazakhstan |
Timezone Records |
2023 |
GER |
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Gli album della prog-metal band tedesca escono col contagocce. Un primo album edito in piena esplosione del fenomeno musicale sopra citato, con vari gruppi europei che rispondevano al boom creato dagli statunitensi Dream Theater (tra cui gli Ivanhoe, tedeschi anche loro), divenendo degli epigoni più o meno discreti; proprio allora, qualcuno dei nuovi ascoltatori parlò dell’ensemble di Amburgo come una realtà – per l’appunto – Dream Theater-dipendente. Per il secondo lavoro occorre attendere il 2005, registrando il cambio di cantate e bassista, oltre ad un approccio molto più metal che prog. Dovranno passare ben diciotto anni affinché si potesse ascoltare questo terzo album, in cui si raggiunge finalmente un buon equilibrio. Registrando la presenza di un ulteriore avvicendamento, col (relativamente) nuovo vocalist Michael Kauter, lo zoccolo duro rimane sempre quello degli esordi discografici: Björn Tiemann (tastiere), Heiko Holler (chitarre) e Jan Keimer (batteria), tenendo comunque conto che il bassista Hans Strenge è in formazione da circa vent’anni. Ensemble quindi ben consolidato e soprattutto rodato, il cui risultato sonoro viene discretamente prodotto da Jens Lück. Un pezzo come “King of Tales”, nonostante il chiaro attacco prog-metal, è maggiormente sbilanciato verso il settore hard and heavy, reso più maestoso e classicheggiante dai chiarissimi riferimenti agli Uriah Heep (quelli più tronfi, per l’appunto), ben interpretati da Kauter; non potrebbe essere diversamente, visto che lo stesso vocalist è stato per anni dietro il microfono degli Easy Livin’, cover band proprio degli ‘Heep, il quale presenta comunque delle tonalità vocali più gravi rispetto ai modelli originali. Proprio la voce, in prima battuta, potrebbe sembrare troppo dura e secca; occorre assimilare le sensazioni, notando che dopo gli stacchi strumentali la voce medesima tende a diventare più melodica e a conformarsi agli andamenti musicali. Una buona sintesi di tutto ciò avviene già nell’iniziale “The Custodians”, anch’essa molto orientata al metal neoclassico, ben “irrobustita”, evidenziando poi un intermezzo dal sapore esotico. Su “Farewell”, tra le migliori del lotto, riappaiono i primi Dream Theater, con una lunga parte strumentale ottimamente eseguita a livello ritmico, su cui le tastiere suonano sfruttando le classiche sonorità del genere. Anche qui vi sono dei rimandi vagamente esotici, stavolta nelle strofe, e la voce potrebbe risultare ancora più avulsa, persa in una sua cupezza rabbiosa, che nemmeno il ritornello melodico riesce ad addolcire. Situazione diversa con “Interception”, una power-ballad (dalle strutture non così scontate) che fa scaldare i cuori dei prog-metal fans più duri, il cui inizio ricorda nettamente gli italiani Wicked Minds, fattore probabilmente dovuto ai riferimenti di entrambe le compagini alla storica band britannica sopra menzionata. Stavolta tutto suona più organico e dopo il teatrale assolo di chitarra sembra che Kauter si sfoghi nel ritornello finale, dove ruggisce tutte le emozioni che tiene represse nell’addome. A seguire, la ben più aggressiva “Waiting for the Storm”, caratterizzata dal lungo assolo finale sulle sei corde. A partire da “Beyond the Line” l’approccio vocale cambia, facendosi maggiormente profondo e lirico, portando avanti uno stile generale più vicino a quello dei britannici Threshold, soprattutto con “Losing Ground”. Nel finale, dopo la romantica “On a Distant Shore”, ecco la title-track: sette minuti in cui le poche parole cantate tornano ad essere piuttosto arrabbiate, per lasciare che un lungo assolo tastieristico chiuda i giochi sulle sonorità che il titolo stesso suggerisce. Termina così un lavoro che prende spunto dall’ex repubblica sovietica omonima, uno Stato dai confini geografici molto estesi e che si trova al centro di autentici incroci culturali. La band vede in questo luogo l’emblema della contraddizione tra modernità e tradizione, oltre alla multiforme stratificazione di influenze culturali, le medesime che i Ricochet vorrebbero inserire nella propria musica. Ma il Kazakistan è anche luogo in cui si sono dimostrati evidenti effetti distruttivi per l'ambiente a causa dello scriteriato intervento umano sulla natura. È quindi questo un concept album, come lo era il suo lontano predecessore? Non nel senso stretto del termine. Diciamo che è una raccolta di brani in cui ci si rifà molto all’immagine di copertina, in cui vorrebbero oscillare sentimenti molto vari, che vanno dall’ironia alla disillusione. Un ritorno felice, che mostra una più che buona competenza. Del resto, dopo tutti questi anni, potrebbe apparire come un fattore quasi scontato. Ora, si vedrà quanto ci sarà da attendere per un altro eventuale album…
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Michele Merenda
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