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SELF PORTRAIT |
Fishes were everywhere |
Andromeda Relix |
2024 |
ITA |
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Provenienti da Parma e attivi dal 2015, i Self Portrait ci hanno messo nove anni per arrivare alla realizzazione del loro album di esordio. In questo lasso di tempo e con qualche cambio di line-up, hanno potuto lavorare a lungo su una proposta che, dichiaratamente, prova a far confluire in un’unica direzione una marea di influenze diverse. Il progressive rock e la psichedelia che sono la base della loro musica, infatti, si mescolano spesso e volentieri al metal, al funk, all’elettronica, al new-prog, al pop stralunato, a echi beatlesiani più o meno lontani. La band giunge all’appuntamento con il debutto con una formazione che vede Marco Fulgoni alla voce e alla chitarra, Martino Pederzolli al basso, Giorgio Cimino ai sintetizzatori e all’organo e Luigi Mazzieri alla batteria. Sei composizioni articolate, che viaggiano tra i sette e gli otto minuti abbondanti, sono contenute in questo Fishes were everywhere”. L’opener “Moontrip” è forse il brano più interessante e rappresentativo, che viaggia tra giri di basso ipnotici, chitarre spacey, tastiere stranianti, variazioni di atmosfera e riferimenti ai primi Porcupine Tree. Il cantato magari è perfettibile, ma contribuisce comunque ad alimentare i toni caldi che si avvertono. Diciamo che il loro sound parte da queste coordinate, che poi durante l’ascolto dei pezzi successivi vanno ad incrociarsi con spunti trance-elettronici e fughe strumentali in “Tiergarten”, con l’aggressività che ricorda certo metal alternativo degli anni ’90 in “Enoch”, con un romanticismo malinconico in “Nine magpies and a black cat”, con un mix di suoni caro a Pink Floyd e Marillion in “Croup and vandemar”. La conclusiva “Discount my time” mostra tutta la voglia del gruppo di fondere le varie influenze e, tra cambi di tempo e di atmosfera, viaggia attraverso nuove suggestioni space-rock, cavalcate impetuose, spruzzate funk-rock, arpeggi che contribuiscono a donare un’aura misteriosa e chiarissimi echi floydiani nei notevoli assoli finali di chitarra e organo. Considerando anche che i musicisti non distolgono mai l’attenzione dall’aspetto melodico, trovare i giusti equilibri in questo bailamme di suoni e colori è impresa di certo non facile. I Self Portait per lo più ci riescono, ma restano alcuni frangenti che appaiono un po’ forzati. Nel complesso siamo di fronte ad un buon disco, che può soddisfare chi segue da sempre i Porcupine Tree e i progetti di Steven Wilson, gli Anathema, i Pink Floyd, i Marillion. Le buone idee ci sono, la voglia di non seguire pedissequamente le orme di nessun nome “classico” pure; li aspettiamo alla prossima prova.
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Peppe Di Spirito
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