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BENJAMIN CROFT |
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Galactic Receiver |
2024 |
UK |
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Musicista britannico precoce, che comincia a prendere lezioni di piano e tromba all’età di sette anni, Benjamin Croft vede cambiare la sua vita artistica una decina di anni dopo, quando sente “Close to the edge” dei connazionali Yes e apre quindi gli occhi sull’universo progressive. L’iniziale estrazione jazz si sarebbe ben presto mischiata ad altre influenze, giungendo infine a questo terzo album che oltre alla matrice fusion guarda anche al prog-rock e al prog-metal. Un percorso cominciato già con l’album precedente “Far and distant things” (2021) e che poi, durante il periodo del lock-down forzato, avrebbe portato a concepire quest’opera multiforme assieme ad altri protagonisti, avvicinando la proposta a quella di Dererk Sherinian e dei suoi Planet X (soprattutto il primo periodo). Se nell’immagine frontale di copertina vi sono dei robot spazzini, sul retro c’è un disco volante che con un raggio gravitazionale sembra tirar su montagne di spazzatura da un fiume (sperando che invece non stia scaricando…). Secondo l’autore, il titolo sarebbe un commento all’equilibrio tra luce ed oscurità presente in ciascuno di noi nella società attuale, sottolineandone quindi l’ambiguità. Un equilibrio che per qualcuno, ad oggi, si dimostra piuttosto instabile. Volendosi concentrare sull’aspetto prettamente musicale, si può dire che i contenuti si rivelano parecchio eterogenei. “You Made Me Miss” risulta uno dei momenti più vicini alla vecchia attitudine jazz del tastierista, qui assieme ad un astro jazz-fusion delle sei corde come Mike Stern. Un nome che non tradisce nemmeno in questo caso le attese, affiancato da una sezione ritmica d’alto livello formata dal bassista Stuart Hamm e dal batterista Simon Philillips, cioè due professionisti altrettanto rinomati, capaci di trascendere i generi. E a proposito di chi in carriera ha dimostrato di saper suonare praticamente di tutto, l’iniziale “The Age Of Magrathea” vede Greg Howe irrompere con due assoli di chitarra che portano luce in una composizione complessa e dai tratti spesso cupi. Presente anche in questo caso “Stu” Hamm al basso, affiancato alla batteria da Marco Minnemann (The Aristocrats). Il titolo del brano, chiaramente ispirato al ciclo della “Guida galattica per autostoppisti” di Douglas Adams, sottolinea ancora di più l’ambientazione fantascientifica dell’opera, per non parlare dell’etichetta Galactic Receiver, inaugurata in quest’occasione dallo stesso Croft per i propri lavori. Continuando poi ad analizzare gli episodi strumentali, “Lower Moat Manor” vede la presenza di un sempre solare ed inspirato Frank Gambale, chitarrista australiano che qui duetta con i sintetizzatori del titolare. Più dura e compatta “Same Siders”, che vede il tastierista sugli scudi, assieme ad un Billy Sheehan che col suo basso non rimane certo a guardare ma mostra una volta di più di che pasta sia fatto. Molto breve lo spazio solista ritagliato dal chitarrista Carter Arrington, mentre sono da registrare nel finale le “acrobazie” di Minnemann dietro le pelli. Passando poi ai brani cantati, la title-track racconta la “mano amica” dell'industria musicale, per nulla disinteressata, affidata alla voce di Jeff Scott Soto. Un taglio decisamente AOR, reso maggiormente complesso dalla premiata ditta ritmica Sheehan/Minnemann e dai duetti tra Arrington e Croft. Il cantante statunitense torna sulla conclusiva “She Flies Softly On”, un po’ in stile Ayreon ma poco interessante. Lynsey Ward, invece, canta su “Caught In The Flypaper” e “Wrestling With Plato”. La prima può essere menzionata per lo stacco netto a metà brano, in cui i riff graffianti costituiscono lo sfondo su cui Benjamin ne approfitta per suonare nello stile del Keith Emerson di “Tarkus”, mentre la seconda va seguita decisamente con maggiore attenzione dall’ascoltatore, andando oltre alle parti cantate in stile Evanescence e concentrandosi invece sulle partiture strumentali. Un album molto eterogeneo, come si è detto, che dà il meglio nei momenti in cui viene lasciato libero sfogo al talento dei tanti illustri ospiti. Da rivedere l’opzione dei brani cantati, che non risultano altrettanto convincenti e anzi suonano molto spesso come una forzatura.
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Michele Merenda
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