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ALBATROS (SPA) Ursus Musea Parallele 2011 SPA

Secondo album per la band catalana (da non confondere con quella tedesca omonima), autrice di un enfatico hard-prog che spesso e volentieri sconfina su timbriche decisamente heavy. L’iniziale title-track è già tra le cose migliori dell’intero lavoro, con un incedere inizialmente lento e psichedelico, ricordando in alcuni contrappunti strumentali addirittura certi passaggi floydiani. La chitarra ritmica di Javi Fernandez (voce solista del gruppo) fa da dura base per i solismi distorti di Marc Gonzàlez, con le tastiere ed il pianoforte di Red Perill che spuntano dietro l’angolo a fare da riempimento insostituibile all’economia del brano. Il crescendo finale è tipicamente, epicamente… ed esageratamente latino, con la doppia voce femminile che svaria sul tema principale maschile, per una chiusura drammatica sottolineata dall’incisivo assolo finale di Gonzàlez.
Anche “El camino de Swann” inizia lento e poi, guidato da dei synth sempre epici, porta ad un mid-tempo con chitarre pesanti e tastiere che sembrerebbero una sorta di PFM in salsa iberica, smorzandosi nuovamente nel finale.
“Loki” inizia “eroicamente” e parte subito all’attacco, intervallato da dei costanti stop and go. È proprio lungo questo brano che viene fuori la consapevolezza di come gli Albatros abbiano il piacere di quell’enfasi che a volte sconfina nell’esagerazione; un qualcosa che sembra comunque insito in loro, già a partire dalla lingua, ricca com’è di immagini pompose e di superlativi. Ma il bello è che tutto questo all’ascoltatore non disturba affatto! La musica scorre comunque fluida e quando si esplode con un assolo pare che i musicisti siano pronti a sfidare i proiettili a petto nudo.
Arrivati a questo punto, appare normalissimo che “La Cienega” parta spensierata per evolversi poi nell’ennesima tragedia, terminando con un altro bell’assolo finale che riporterà al tranquillo tema iniziale, come se niente fosse successo.
Ancora prog epico in “Rey Lombriz”, dove Tolo Gabarrò (batteria) e Joan Gabriel (basso) sono costretti a fare gli straordinari per la variazione delle ritmiche.
“Icaro”, con i suoi dieci minuti, è un altro dei momenti topici e racchiude tutto quanto è stato fatto di buono fino a questo momento in quest’album, per la gioia di tutti gli amanti di queste sonorità. Tastiere analogiche in evidenza, tappeti di Hammond, riff hardeggianti, ritmica precisa e sempre dinamica, con frequenti cambi di atmosfera. Finale da placido “liquido psichedelico”.
Chiude la spettacolare “Planeta prohibido” (sarà un caso che l’hanno piazzata proprio alla fine?), stavolta cantata in inglese (il ritornello recita: “In a forbidden planet”). L’effetto è indubbiamente differente e sembra suonare un po’ come i brani delle hard-prog band italiane quando cantano nella lingua di Albione.
Tirando le somme, un album indispensabile? Forse no. Ma sicuramente molto bello, almeno per chi apprezza il (sotto)genere. Tutti gli altri sono avvisati.


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Michele Merenda

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