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ALKOZAUR Serum of life Musea Parallèle 2011 FRA

Francesi che cantano inglese, meriterebbero un capitolo a parte! Anche se questo nello specifico, all’anagrafe Philippe Compagnon, non ha quella erre moscia che con la lingua di Shakespeare fa a cazzotti. L’accento a dire il vero non è proprio terribile, sono invece le sue doti canore che lasciano un po’ a desiderare: forse nei suoi sogni il nostro compagnone vorrebbe essere Stu Nicholson (e non vi ho detto neanche Fish!) dei Galahad ma la realtà è più dura da digerire… Commenti etno-geografici a parte, volendo riprendere il filo logico della recensione, posso dirvi che questo è il debutto discografico di una band composta da personaggi comunque non freschi di scuola; uno di loro, il bassista Antoine Ferreira, lo troviamo negli Step Ahead, gruppo prog fusion attivo negli anni Ottanta, mentre gli altri hanno comunque anch’essi alle spalle esperienze musicali in altri anfratti più oscuri. Gli altri membri dell’equipaggio, presentiamoli, sono Didier Lapchine alle chitarre, Thierry Laurent alla batteria e Serge Ruiz alle tastiere. Insieme suonano un progressive rock romantico di stampo anglosassone, assimilabile a quella che era la scena del New Prog che aveva un certo seguito negli anni Ottanta.
Detto questo non mi capacito di come un gruppo dal sound così classico sia finito nella sottoetichetta parallela della Musea ma ho già espresso altrove le mie perplessità sulla gestione di questa label che ultimamente sembra un po’ allo sbando. Per non andare fuori tema, anche se deviare dall’analisi del disco sarebbe forse più divertente, viste le scarse attrattive del prodotto, la musica appare piuttosto piatta ed anonima. La trama ritmica è piuttosto scolastica e lineare e, addirittura, a tratti sembra inciampare. Le tastiere sono usate soprattutto come fondale e mancano ad esempio quei i colori di Moog che hanno caratterizzato tutta una stagione musicale in Inghilterra e la musica dei gruppi che in altri paesi hanno strizzato l’occhio a questo scenario. Degli Osiris qualsiasi (Bahrein) sono dei signori a confronto, per lo meno in quanto a personalità. Fa un po’ sorridere che ci sia un intero brano strumentale, “Last Flight”, che, senza il cantato, mette a nudo tutta la piattezza creativa di una band che non riesce assolutamente a donare emotività e vita alla propria musica. Il pezzo più lungo dell’album, la centrale “When Angels Fly”, sembra davvero non finire più, con le sue sequenze recitate (questa volta in francese per fortuna) che non si capisce quasi cosa ci stiano a fare.
Devo continuare ancora a distruggere questo disco? No, voglio essere clemente e fermarmi qui, aggiungendo però che, se la cosa vi può consolare, abbiamo appena appreso che nel gruppo è da poco entrata una cantante donna, e quindi un grosso problema è stato già risolto. Oltre a ciò la line-up è stata un po’ rimescolata, con tanto di un nuovo batterista italiano, e quindi, visto che la speranza è l’ultima a morire, se ci sarà un prossimo album, potrebbe essere migliore di questo. Nonostante il mio sarcasmo (spiace sempre un po’ essere crudeli quando si recensisce un album) vorrei sottolineare che non stiamo parlando di incapaci. Si tratta soltanto di mettere a fuoco le idee e lavorare duramente, cercando di tirare fuori al meglio il proprio carattere prima di consegnare il master all’etichetta discografica e il prodotto finale nelle grinfie del recensore di turno che spera di non subire ritorsioni fisiche o verbali per essere stato tanto sincero.


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Jessica Attene

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