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ALQUIN The Marks sessions – expanded edition Pseudonym Records 2013 NL

Il nucleo degli olandesi Alquin nasce nel 1969 a Delft grazie all’incontro tra gli studenti universitari Donald Ottenhof (flauto e sassofono), Dock Franssen (tastiere) e Job Taranskeen (batteria). Il trio si ribattezza in un primo momento col nome di Threshold Fear, suonando rhythm & blues nei party e durante le riunioni studentesche. L’anno seguente entrano in formazione musicisti già rodati nella scena locale come il chitarrista Ferdinand Bakker, il bassista Hein Mars ed il nuovo batterista Bert Ter Laak. Sì, perché nel frattempo Taranskeen decide di applicarsi anche lui al sax, concentrandosi anche sulla voce solista e sulla stesura dei testi. Con questo assetto viene sfornato un singolo prodotto dal noto Peter Vink per la Negram. Al contempo, anche l’Olanda viene piacevolmente investita dai venti di fermento creativo che stavano soffiando forte in buona parte dell’Europa, soprattutto in campo musicale. In una scena che sarebbe stata ricordata per aver annoverato, tra gli altri, nomi in futuro assai noti come Focus, Kayak, Earth & Fire, Supersister, Solution e Golden Earring, la band sente di potere e dover andare oltre gli schemi fino a quel punto collaudati. Il più desideroso (e forse bisognoso) di tale cambiamento risulta essere Bakker, il quale comincia a frequentare diversi importanti festival. In uno di questi, a Kralingen, assiste all’esibizione degli It’s A Beautiful Day (noti per aver scritto il tema di “Child in Time”… prima dei Deep Purple stessi!) e ne rimane letteralmente folgorato. Capisce che il violino (che lui stesso suonerà), applicato in un determinato modo, può portare a risultati strabilianti. E da lì si aprirà un mondo completamente nuovo. L’impatto che Woodstock ha scatenato l’anno precedente si fa sentire più forte che mai e la strada ormai appare spianata. Nel ’71 la band si consolida definitivamente con il batterista Paul Weststrate e dal nome di un monastero locale, Alcuin, viene mutuato il monicker che per alcuni anni li avrebbe resi noti in patria e all’estero, grazie al contratto con la prestigiosa Polydor Records.
Il primo album, “Marks” (1972), mette in luce una band che sicuramente rimesta nel soul, in spunti jazz raffinati, in alcuni elementi folk e persino in partiture di musica celtica. A dire il vero, nonostante la competenza ed eleganza, in un primo momento sembra che gli Alquin non abbiano una direzione univoca presso cui puntare; questo porta ad una musica assai gradevole, ma che sarebbe potuta essere molto più incisiva e meno dispersiva. Il doppio CD di sessions (magistralmente masterizzato) che la Pseudonym immette sul mercato sembra in buona parte ovviare a questi problemi. Nel primo dischetto si possono ascoltare diverse demo versions registrate ai GTB & Soundpush Studios tra luglio e dicembre del 1972, mentre nel secondo viene inciso un concerto inedito suonato nell’estate dello stesso anno al Circustheater di Scheveningen. Partendo dalla fine, cioè proprio dal live, si può tranquillamente affermare che gli Alquin dal vivo erano proprio un gran bel sentire. Molto più sciolti e fluidi, assolutamente decisi e capaci di sfruttare al meglio un ensemble di polistrumentisti in cui spicca soprattutto l’interazione tra i due fiatisti. Tra le altre cose i pezzi risultano spesso assai più lunghi che in studio, apportando delle variazioni sonore che li fanno apprezzare maggiormente. L’originale di “The least you could do is send me some flowers”, solo per fare un esempio, dura poco più di due minuti, mentre dal vivo, con tanto di “Overture”, sale incredibilmente a nove minuti e va incontro al sound di un tanto sfortunato quanto ottimo progetto a nome Tonton Macoute. Stessa cosa per altri ottimi pezzi come “Soft Royce” o “Marc’s Occasional Showers”, il cui minutaggio alza ancora notevolmente il proprio livello ed il modo di suonare i fiati ricorda assai quello contenuto in album seminali di Frank Zappa come “Hot rats” o “Chunga’s revenge”. C’è poi “Mr. Barnum Jr.s Magnificent And Fabulous City”, che sarebbe comparso su “Marks” solo molti anni dopo, nella ristampa su supporto ottico, e comunque sempre in una versione live di tre minuti. Lo si sarà capito, qui si va sui dieci minuti e la versione somiglia parecchio a quella comparsa sul secondo “The mountain queen” l’anno seguente. Col già citato Frank Zappa di “Hot rats” le similitudini sono più forti che mai, soprattutto per l’armonizzazione tra i fiati ed il violino, per non parlare delle fughe degli stessi sassofoni scandite dal pianoforte molto rag-time e dalla sezione ritmica assai svelta, oltre alle evoluzioni di flauto nell’intermezzo. Addirittura sembra che il bello stia arrivando nel finale, dove Bakker inforca nuovamente la chitarra e promette scintille in una tosta jam session, ma purtroppo la musica va a sfumare e si chiude il concerto.
Per quanto riguarda le sessions vere e proprie di “Marks” contenute nel CD n. 1, invece, si può dire che si mantiene lo stesso spirito di spontaneità ed è assai curioso andare a vedere come la prima registrazione di “I Wish I Could” duri quasi dodici minuti e la seconda solo tre. Di sicuro all’ascoltatore non mancherà il piacere di ascoltare e riascoltare le varie piccole differenze che poi hanno portato alla stesura finale dei brani.
La musica degli Alquin scorre quindi che è un piacere e non si fa affatto fatica ad arrivare con entusiasmo fino in fondo, nonostante la lunghezza… Ma quando li si risente una seconda o terza volta si capisce che c’è qualcosa che non va. È un po’ come aver letto un libro che ci è piaciuto, volerlo rileggere per coglierne contenuti che magari ci erano sfuggiti (capita spessissimo)… e si scopre che non c’è proprio nulla da cogliere. Nemmeno quello che ci eravamo immaginati durante la prima lettura. Una cosa assai strana, perché gli olandesi ci sapevano maledettamente fare. Che il problema fosse proprio quello? Che si trattasse principalmente di “mestiere”? Rimane un arcano da approfondire in altre sedi. Comunque, il doppio album vale veramente la pena di essere ascoltato e si dimostra di buon valore, mettendo in mostra il meglio di quel periodo della band. Il medesimo feeling live sarebbe stato finalmente portato in studio già l’anno successivo, proprio su “The mountain queen”, grazie ad un produttore come il britannico Dave Lawrence che aveva collaborato, non casualmente, con compagini del calibro di Deep Purple e Wishbone Ash. Elemento che si sentirà in toto.


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Michele Merenda

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