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ACCORDO DEI CONTRARI AdC AltrOck 2014 ITA

Momento assai delicato quello del terzo album, soprattutto per una band che ha convinto in pieno fin dall'inizio. Non si tratta più, infatti, di confermare “solamente” quanto fatto di buono all’esordio, ma di mostrare anche qualcosa che sia finalmente nuovo ed allo stesso tempo mantenga un determinato marchio di fabbrica. Da un lato, quindi, la capacità di evidenziare convincenti capacità compositive e di non essere i cloni di se stessi solo per accontentare qualcuno; dall’altro, l’abilità di non snaturare il proprio sound e quindi non scialacquare quanto di positivo si era riuscito a costruire negli anni precedenti. Decisamente dura la vita di un musicista degno di chiamarsi tale, soprattutto quando si ha a che fare con determinate platee, le quali sembrano attendere morbosamente il minimo passo falso solo per il piacere di sparlare, in un modo o nell’altro.
Beh, gli Accordo dei Contrari, fin dal 2009 con “Kinesis”, si sono subito imposti con merito come una delle migliori realtà jazz-rock italiche, rinverdendo i fasti della tradizione nazionale che fu. A sorpresa, due anni dopo, escono con “Kublai”, abbandonano l’AltrOck (disaccordi sulla linea da seguire, forse? Mistero!) ed autoproducono un album che suona sicuramente più spontaneo, eseguito in presa diretta (quale dei due approcci risulti migliore è meramente soggettivo), che per i critici ha strizzato l’occhio al Canterbury sound. Emblematica, a tal proposito, la presenza come ospite di Richard Sinclair.
Sorpresa delle sorprese, dopo tre anni il quartetto sforna questo terzo omonimo (abbreviato in sigla) e lo fa nuovamente affidandosi alla nostrana AltrOck. Tra l’altro, leggendo le note di copertina – soprattutto tra le righe – si evince che gli ultimi tempi non sono stati per nulla facili e che l’essere riusciti a superare delle difficoltà gravose ha reso ancora più fieri della pubblicazione di questo lavoro. Che la gestazione sia stata difficoltosa lo si evince in maniera abbastanza chiara, in quanto lo stile sembra variare ulteriormente, basato soprattutto sulle atmosfere scandite dai controtempi e quindi da una verve sperimentale che già si era intravista sul predecessore di “Adc”. Inoltre i pezzi sono stati composti in un arco di tempo piuttosto ampio, durante situazioni completamente differenti, quindi le composizioni danno un’impressione d’insieme ancora più variegata e a volte fuorviante.
Si parte subito con il jazz-rock immediato di “Nadir”, dotato di un assolo di chitarra veloce e sciolto del solito Marco Marzo che risulta tra le cose migliori di tutto l’album. Seguono quindi dei controtempi che dopo un intermezzo visionario diventano sempre più intrecciati e complessi, approdando ad un finale di quiete. “Dandelion” riprende le metriche complesse laddove si erano interrotte – sempre ottimi Daniele Piccinini (basso) e Cristian Franchi (batteria) – a cui seguono ancora assoli chitarristici degni di nota (soprattutto il secondo: lungo, complesso e pieno di groove).
A questo punto, qualcosa cambia. Le seguenti “Seuth Zeugma” e “Dua” risalgono difatti al precedente album, in cui non sono state poi incluse. Sul primo dei brani citati vi sono gli strumenti ad archetto suonati da Vladimiro Cantaluppi ed Enrico Guerzoni, in cui si tende ad un jazz-rock sperimentale con lavoro ritmico dettato soprattutto dalle linee di tastiere tracciate da Giovanni Parmeggiani, denotando una vaga somiglianza con gli Area. In generale, comunque, le composizioni risalenti a tre anni fa – ciascuna a modo proprio – sembrano contrassegnate da un andamento che procede al trotto spedito, anche se spesso scomposto da delle “buche” e degli “ostacoli” che non rendono affatto uniforme l’andatura. Vi sono poi gli otto minuti di “Tiglah”, con una quiete misteriosa che va pian piano montando per oltre quattro minuti, fino a quando le “contaminazioni” (ancora una volta seguendo uno stile strumentale che ricorda i già citati Area) vengono fuori spontanee, con un Parmeggiani in gran spolvero. Conclusione affidata a “Più Limpida e Chiara di Ogni Impressione Visuta, part II”, che esisteva già ai tempi del secondo album ma solo in forma molto approssimativa. Con la chitarra acustica che si mostra discreta tra gli archi di Cantaluppi e Marina Scaramagli, si chiude definitivamente in maniera quieta e riflessiva.
Che dire, per concludere? L’inizio era stato praticamente ottimo, all’insegna di ciò che era stato e dopo rielaborato. Il seguito necessita di riflessione e, per quanto ottimamente eseguito, potrebbe a tratti apparire come un tappa buchi o come qualcosa da elaborare ulteriormente. Su questo “Adc” ci sono delle parti straordinarie, mentre altre sembrano l’inizio di qualcosa di nuovo, di cui ancora non se ne riesce a delineare con esattezza i contorni. Bravi come sempre e non si può non consigliare anche questa ultima fatica, però è bene tenere la guardia alzata e non aspettarsi chissà quale sfogo strumentale in ciascuno dei sei brani presenti. Si potrebbe rimanere delusi e si sminuirebbe a torto un album comunque buono. I fan della prima ora attendono di sapere come proseguirà la storia…



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Michele Merenda

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