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ANNOT RHÜL Leviathan Black Widow 2014 NOR

“Talvolta sono sulla riva
ove riversano gli affanni l'impetuoso efflusso,
e le acque inquiete stridule gridano e sospirano
di segreti che non osan rivelare”

E' dall'autore di questi versi, Howard Phillips Lovecraft, che il chitarrista e tastierista norvegese Sigurd Tonna (in arte Annot Rhül) ha preso spunto per comporre il suo ultimo disco in studio “Leviathan”, prodotto dalla Black Widow. Dietro questo pseudonimo non vi è una vera e propria band, ma un Tonna tuttofare che, all'occorrenza, si avvale della presenza di collaboratori esterni.
Il musicista omaggia questo grande poeta (uno dei migliori dopo Edgar Allan Poe, in ambito di letteratura horror) dando vita ad una musica straniante e al contempo introspettiva, a tratti tendente ad una sorta di nichilismo esistenziale.
Non è un caso che uno dei brani più belli di quest'album porti il nome del romanzo più celebre del saggista statunitense: “The mountain of madness”. Ciò che Lovecraft espresse a parole, Tonna lo traduce in musica. Le chitarre angoscianti e le tastiere lugubri donano un tocco solenne al brano, mentre un senso d'irrequietezza cresce lentamente e senza sosta, fino a sfociare in un mare di follia.
Come raffigurato in copertina, l'album ruota attorno alla figura biblica del leviatano; la mostruosa creatura marina dai giganti tentacoli, rappresenta la potenza assoluta, priva di controllo, la superbia che non scende a compromessi e, sempre allegoricamente, il caos interiore.
Con tali presupposti, ci si prepara già ad un ascolto sicuramente particolare.
Il disco accoglie ed amalgama vari stili musicali, ma è nello space rock degli Hawkwind e soprattutto nella psichedelia dei primi Pink Floyd che meglio si riconosce, malcelando un velo d'inquietudine sotterranea sempre presente e che potremmo certamente considerare come il Leitmotiv di quest'album.
L'accattivante suite d'apertura (“Leviathan Suite”, per l'appunto) ne è una prima, palese, conferma: i timbri sono freddi, l'atmosfera cupa e ostile. Le ampie parti di synth, che rimandano vagamente a “Profondo Rosso” dei Goblin, proiettano l'ascoltatore tra le grinfie del mostro marino, che lo imprigiona e lo trascina con se nel più profondo degli abissi.
Lentamente però il clima tetro e insidioso cambia e i presagi più bui sembrano lasciare il posto ad un sole che timidamente sorge. La dolcezza del sound tipicamente settantiano, i cori maschili e femminili, una soave distesa di Mellotron accompagnata dal suono delle onde del mare, rischiarano poco a poco l'orizzonte e la pace sembra fare ritorno nell'animo di chi ascolta.
E' dopo questo momento di quiete apparente che ha inizio un lento e suggestivo crescendo che culminerà in un impeto emotivo, ricco di tastiere e chitarre graffianti in stile hard rock; la palpitante batteria fa la parte sua e conferisce la giusta possenza al brano, la medesima del leviatano.
Per puro gusto personale ho voluto porre l'attenzione su questi due brani, ma gli altri seguono comunque la stessa scia; gradevoli ed efficaci alcuni effetti spaziali di matrice Ozric Tentacles presenti in “The colour out of space” o suoni tipicamente orientali inseriti in “Surya”.
Pur non rappresentando nulla d'innovativo, “Leviathan” resta un disco tutto sommato godibile e l'abilità di Sigurd Tonna nel dar voce ad un qualcosa che oscilla costantemente fra il pessimismo cosmico, la gloria e l'estasi, non è da sottovalutare.



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Silvia Giuliani

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